Documento a firma Carlo Pegorer e Stefano Pizzin sulla situazione politica in Friuli Venezia Giulia
Non c’è dubbio che lo scenario politico che si è determinato dopo le elezioni politiche e regionali ci consegna un Paese e una Regione dove la sinistra appare una forza residuale, scollegata dalla sua tradizionale base elettorale, in profonda crisi organizzativa e culturale, e con il concreto rischio di finire ai margini della vita politica.
Già la presa di coscienza di questa situazione sarebbe un primo, necessario, passo per ripartire.
A ben vedere, il 4 marzo 2018 segna per la sinistra italiana, tutta la sinistra nelle sue varie articolazioni, al pari di altre realtà europee, un passaggio di natura epocale.
In questo quadro, andrebbe preso atto della profondità e straordinarietà della crisi, delle radicali trasformazioni intervenute nella società tutta, analizzando, con precisione e senza autoassoluzioni, gli errori commessi e i motivi di questo esito.
Cosa è accaduto?
Per dare, forse, una prima spiegazione dobbiamo ritornare agli anni Novanta e all’inizio della globalizzazione. Quel travolgente trionfo del sistema capitalistico in ogni angolo della terra, quel suo superare barriere e limiti è stato accettato acriticamente dalla sinistra nel nome di una crescita senza freni.
L’illusione della stagione dei Blair, Clinton, Schroeder, che si doveva lasciar fare al mercato e poi redistribuire la ricchezza prodotta, si è rivelata fallace. Invece che diffondere ricchezza, il mercato senza freni ha, in particolare in Occidente, finanziarizzato il sistema economico e concentrato la ricchezza sempre più in poche mani e, accompagnandosi a una rivoluzione tecnologica senza precedenti, ridotto e mercificato il lavoro e le esistenze. Dalla crisi del 2008, poi, l’Unione europea non ha saputo che rispondere in termini di austerità, provocando la riduzione delle misure sociali, i tagli ai sistemi scolastici e sanitari e relegando l’intervento pubblico in spazi sempre più angusti.
Di fronte all’incedere della crisi e alla concreta regressione delle condizioni materiali di interi ceti sociali (lavoratori a reddito fisso, pensionati, giovani), la sinistra non è andata oltre a una retorica stanca, un europeismo di maniera, riducendosi, in molti casi, a gestire il governo accanto a forze conservatrici.
In assenza di ogni coerente iniziativa politica, interi ceti sociali un tempo rappresentati dalla sinistra si sono sentirti abbandonati e si è inserita l’azione e la propaganda delle forze populiste, sovraniste e nazionaliste.
I sovranisti hanno immediatamente colto il disagio e la rabbia provocati dal venire meno di alcune certezze nella vita degli europei (il lavoro certo, il welfare), hanno trovato dei nemici da additare all’opinione pubblica (gli immigrati, l’Unione europea, le élite economiche e culturali e le libertà civili), o al governo, hanno proposto misure di carattere sociale verso le famiglie tradizionali e alcuni ceti di riferimento.
La società che i sovranisti/nazionalisti propongono è chiusa, delimitata dalle tradizioni e dal conservatorismo sociale e civile, ostile agli stranieri, e immagina i rapporti tra gli Stati come una competizione tra soggetti distinti che rifiutano qualunque dimensione sovranazionale.
Una chiusura che difficilmente reggerà la dimensione globale dei processi economici, ma che, in assenza d’altro, appare agli occhi dei ceti che hanno pagato le trasformazioni della globalizzazione come l’unica forma di difesa.
Un bluff, sicuramente, basti pensare a quanto poco sociale e progressista sia la flat tax proposta dal governo gialloverde, ma che, in assenza di una proposta autenticamente progressiva, trova ancora largo ascolto nella società.
Da qui deve ripartire la sinistra: dalla consapevolezza che va data risposta, senza timidezze, alle diseguaglianze sociali e al disagio materiale di milioni di persone.
La stessa ossessione per la comunicazione e il leaderismo hanno mostrato tutta la loro fallacia: puoi spendere milioni di euro con i più affermati spin doctor, puoi esporre sui media all’inverosimile il leader di riferimento, ma se le sue parole, i suoi progetti, non incrociano la vita reale delle persone, i loro problemi e le loro sofferenze, sarà tutto inutile. Ne sanno qualcosa Renzi e, nel nostro piccolo, la Serracchiani
Oggi davanti alla sinistra c’è, prima di tutto la necessità di scegliere chi rappresentare, che strumenti usare e che società immaginare per il futuro, altrimenti non c’è identità, e senza identità in politica si muore.
Si tratta, allora, di riprendere ciò che sta nel patrimonio storico della sinistra e di saperlo adattare alle condizioni del mondo contemporaneo, al nuovo carattere del conflitto capitale/lavoro, mettendo al centro la persona.
i suoi diritti, la necessità di avere una adeguata protezione sociale, e il lavoro come la possibilità di esprimere i propri talenti accanto a uno Stato in grado di offrire un percorso di protezione sociale e che investe con forza nell’istruzione, nel welfare e nella sanità
La politica, poi, ha bisogno di una nuova dimensione organizzativa. Certo, è impensabile tornare alle strutture politiche di un tempo, ma la stagione dello smantellamento dei partiti, della smobilitazione della politica come luogo della formazione e della discussione, sostituita dalla creazione di una classe dirigente in vitro, concepita nei gazebo e partorita negli studi televisivi, o in qualche occulto corso di comunicazione, è fallita.
Insomma, ciò che oggi serve alla sinistra è una riflessione profonda e una vera riconnessione con la parte debole della società, da sempre riferimento principale per la sua stessa esistenza.
Per fare ciò va tenuta presente la lezione di Gramsci, cioè la capacità di “prendere le verità dell’avversario e di farle proprie”, declinandole intorno ai valori e agli interessi che si intendono rappresentare: in Italia, in Friuli Venezia Giulia.