Un padre uccide i suoi figli. Lascia un messaggio alla moglie: “Non rivedrai mai più i bambini”. I figli, ancora una volta, come strumento per punire la madre, la donna. I figli come strumento.
È successo in questo mese di giugno 2020 in un paese che può essere qualsiasi paese d’Italia, anche il nostro.
È successo pochi giorni fa, ma era successo anche prima, tante volte, e nulla fa pensare che non succederà ancora.
Quanti sono i bambini in pericolo? Quanti sono i bambini che subiscono violenze? Questi orribili omicidi, queste vite terminate proprio da chi avrebbe dovuto amarle, riempiono per un po’ le pagine dei giornali e i nostri animi di sdegno. Poi cala di nuovo il silenzio. Fino alla prossima volta.
Eppure è una realtà che sappiamo esistere, fra di noi, fra le mura di tante case. Le centinaia di donne uccise ogni anno, nella quasi totalità per mano di mariti, conviventi o ex, ci dicono in modo chiaro, senza possibilità di dubbi: ci sono uomini violenti, che odiano le donne, al punto di ritenerle un oggetto per sé, al punto da ucciderne i figli, come mezzo per straziarle.
Allora, cosa fare? La rabbia postuma che invoca la tortura, la pena di morte, le pene più esemplari esprime l’impotenza che proviamo di fronte ad azioni che fanno tremare per l’orrore.
È da questa impotenza che dobbiamo uscire e sono diversi i modi per farlo.
C’è il modo della giustizia. Troppo spesso, se non quasi sempre, gli omicidi commessi da mariti o ex si risolvono con pene di pochi anni. Troppo spesso l’uccisore, l’uomo violento, torna presto libero, libero di perseguitare, di rovinare vite. Troppo spesso è la vittima della violenza a doversi giustificare, da viva e da morta. La giustizia, quindi, come luogo dove la cultura espressione di un patriarcato malato è ancora troppo presente, va cambiata. Serve anche qui una riforma, culturale in primo luogo.
Ed è quella stessa riforma culturale di cui hanno bisogno, come una indispensabile cura, tante aree del nostro presente.
Perché accanto al modo della giustizia c’è quello dell’informazione. Giornali e trasmissioni che trasformano questi delitti in spettacoli, per un pubblico che viene educato alla morbosità, contribuendo a consolidare quella stessa cultura patriarcale nella quale si annida la violenza. E’ così che il padre che uccide i figli, l’uomo che uccide la donna, diventa, attraverso la scelta delle parole, ‘ un uomo che vive un dramma’, ‘il gigante buono’, ‘il padre amorevole straziato perché lei voleva lasciarlo’.
Ma giustizia ed informazione arrivano dopo, arrivano a dramma compiuto. Allora l’altro modo, quello più immediato, è la via della prevenzione.
È il ruolo delle istituzioni, del Governo, delle Regioni, delle Province e dei Comuni, per realizzare tutto ciò che è necessario ed utile per non lasciare solo chi chiede aiuto. Di più, per aiutare le vittime di violenza a chiedere aiuto.
Per farlo servono i luoghi, le persone, i mezzi. Serve un’attività capillare che crei punti di riferimento certi nei territori, ai quali possano rivolgersi coloro che si sentono in pericolo, coloro che subiscono violenze. Si parte da qui, dalle risorse necessarie per realizzare i centri antiviolenza, per farli vivere, lavorare, per sostenere le case rifugio, per aiutare chi è vittima di violenza a salvarsi, ad inserirsi nel lavoro.
Anche questo si realizza attraverso un passaggio culturale. Perché non basta dire di essere pro famiglia. Occorre dire cosa vogliamo ci sia dentro la famiglia. La famiglia puo’ essere solo in quanto luogo dove trovare amore e sicurezza.
La politica può contribuire a costruire questa sicurezza oppure può sedersi sulla vuota retorica, a difendere un’idea di famiglia stereotipata, ignorando la realtà e le profonde lacerazioni che da sempre esistono e che è ora di affrontare. L’ultimo quindi, ma non per questo meno importante, è il modo della politica.
Referente Delizia Catrini
Testo elaborato da Laura Bassi