Articolo Uno Veneto: il nostro No al referendum costituzionale

Veneto

È evidente che non siamo più in grado di accettare i rischi della democrazia, mentre ci risultano meno pericolosi i rischi dell’uomo unico al comando.

L’antipolitica è passata. Attraverso un processo di delegittimazione delle istituzioni democratiche, avviato già negli anni ‘90, che ha preso il via dal malessere sempre più diffuso dovuto alla corruzione che politici e rappresentanti delle istituzioni avevano perpetuato, nascosto e nutrito.

Lento, ma costante ed efficace come l’acqua che goccia, dopo goccia, plasma ogni oggetto. Un processo che invece di mirare ai mali che andavano corrodendo e tuttora corrodono le istituzioni democratiche, in primis la corruzione, ha attaccato gli strumenti stessi della democrazia: le forme di rappresentanza, elette da tutti noi.

La corruzione è diventata, da quel momento, la minaccia per la nostra democrazia, una vera leva per sovvertirla. Chi ne aveva maturato la consapevolezza che questo tarlo rappresentava un serio pericolo era stato Enrico Berlinguer che pose la questione morale nel 1981.

I partiti non fanno più politica. I partiti sono degenerati e questa è l’origine dei malanni d’Italia. I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi e o vaghi, sentimenti e passione civile zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contradditori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un ‘boss’ e dei ‘sottoboss’.”

Nel 1984, Enrico Berlinguer moriva. Nel 1991 partiva ‘Mani pulite’. Nel 2020 la questione morale è ancora aperta e porta con sé il virus della corruzione che può far morire la democrazia. Se a questo si unisce l’accentramento delle ricchezze e delle risorse in un numero sempre più ristretto di persone, che tutto possono comprare.

Molti sono stati gli attacchi e molti i correttivi che, se apparentemente si presentavano come soluzione per moralizzare la politica, in realtà non solo non hanno moralizzato, ma hanno ottenuto lo scopo di ridimensionare gli spazi e le possibilità di partecipazione, quindi l’agire democratico.

In primis l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, nato dalla rabbia nei confronti dell’agire non trasparente di molti uomini appartenenti a queste organizzazioni, che ha portato di fatto all’impossibilità per le piccole formazioni, di esprimersi democraticamente, mettendo in difficoltà soprattutto quei piccoli partiti che non possono utilizzare appoggi economici proprio perché onesto riflesso delle istanze dei più deboli  i quali o non intendono utilizzare risorse private per rimanere autonomi da poteri forti, o semplicemente non ne hanno la possibilità perché lontani da tali interessi. Dunque sono penalizzate le forze più innovative e controcorrente.

Altro esempio è il tentativo di togliere il finanziamento pubblico ai giornali, anche questo ha preso origine da un uso truffaldino o poco trasparente di tali agevolazioni ma la cui assenza rischia di cancellare molte possibili testate indipendenti da pressioni economiche e piccole testate locali, perdendo quindi la possibilità di una informazione diversa ed alternativa a quella riflesso di forti interessi.

Ed è inevitabile, parlando di informazione e di accesso all’informazione, affrontare il tema del pluralismo, della possibilità di espressione. Ancora una volta, la questione del finanziamento pubblico a partiti e all’informazione si intrecciano e risultano fondamentali per la democrazia stessa.

Un tema che va riproposto con determinazione, soprattutto perché in questi anni si è ancor più intensificato il fenomeno dell’accentramento di ricchezze nelle mani di pochi, e il controllo che questi pochi hanno acquisito sui mezzi di informazione, di comunicazione e quindi di formazione della cultura e dell’opinione.

Dai social, ai giornali, alle reti televisive, il mondo della comunicazione è in mano a pochi privati, che sono gli stessi che detengono i mezzi di produzione, la finanza, le banche, i mercati. Sono gli stessi che possono permettersi di fondare partiti, di presentarsi direttamente come salvatori della patria, come abbiamo visto in Italia con Berlusconi, o di finanziare politici, fino al punto di incidere nelle scelte stesse dei partiti, snaturandone il ruolo e la funzione.

In questa onda si colloca anche la riforma che prevede la diminuzione dei parlamentari, quasi che la rappresentanza di schieramento e di territori fosse inutile o troppo costosa.

Ancora una volta, non si affrontano i problemi, ma si usano i problemi come strumenti per ridurre la rappresentanza eletta. Ma non è solo questo. Si sta compiendo un passaggio ancora più grave, che riduce tutto a costo. I politici costano, la politica costa, allora tagliamo i politici. Non importa se poi avremo territori non rappresentati.

Anche in questo caso non si coglie il reale problema che non sta nel numero dei parlamentari ma nella bassa qualità della scelta delle persone che ci rappresentano, questione che non viene risolta nella diminuzione del numero dei rappresentanti che potranno comunque continuare ad avere comportamenti disonorevoli, ma dai meccanismi di partecipazione e scelta delle candidature.

E proprio a questo tema, quello della possibilità di fare politica ed essere candidati, si allaccia a maglie strette la questione economica, quella del finanziamento pubblico ai partiti così come quella del compenso per i politici. Il qualunquismo antipolitico, sempre alleato del privilegio e della corruzione, ha costruito il pensiero che chi fa il parlamentare o agisce nelle istituzioni non debba vedere riconosciuto un compenso. In questo modo rendendo di fatto sempre più difficile, se non impossibile, accedere ad incarichi politici da parte di persone che non hanno risorse economiche. Senza compensi, un avvocato, un notaio, un facoltoso industriale possono comunque entrare in politica, ne hanno i mezzi economici. Chi invece svolge una normale professione, con reddito medio sufficiente per mantenere la famiglia, ammesso che senza i fondi pubblici ai partiti riesca a trovare il modo di farsi conoscere, non potrebbe in nessun modo rinunciare al compenso.

La rappresentanza è un servizio che si rende alla comunità ma perché questo servizio possa essere patrimonio di tutti comprese le persone che non hanno ampie risorse economiche, occorre un riconoscimento congruo.

Allora è sul termine congruo che dovremmo riflettere, cioè, anche qui, sui meccanismi di controllo che siano in grado di definire tetti di congruità per chi ci rappresenta e misurare l’attività svolta (presenza, disponibilità, etc).

Quindi la democrazia ha dei costi e sono costi necessari se vogliamo continuare a vivere in questa forma di organizzazione sociale.

Rinunciare a questa spesa significa inevitabilmente diminuire la possibilità delle persone di partecipare e di essere presenti realmente nella vita civile del paese. La riduzione della politica da costo congruente a spreco ha l’obiettivo di allontanare ancora di più le persone comuni dai luoghi dove si fanno le scelte, dove si decide per tutti, soprattutto proprio per le persone comuni.

Siamo poi certi che la diminuzione della rappresentanza sia priva di costi?

Abbiamo attraversato un periodo in cui si è levato il grido salvifico della democrazia diretta attraverso il web e poi scopriamo  che è una democrazia dimezzata, a cui possono accedere solo coloro che hanno la capacità di utilizzare i mezzi necessari, che le decisioni possono essere pilotate da domande per nulla neutre, che le domande poste sono solo quelle che un “capo” decide sia necessario porre alla “base”, che i risultati sono per lo più filtrati dal gestore del web, che la trasparenza tanto osannata è ben poco veritiera e funziona solo sulle questioni che vengono desegregate.

Forme di democrazie diretta possono esistere ma hanno bisogno di una organizzazione sociale che possa supportarle e garantisca la reale trasparenza della gestione. Non possono essere costruite su organizzazioni dello Stato basate sulla rappresentanza perché, come abbiamo visto, questo si traduce in deviazioni per nulla trasparenti.

E se si decidesse di andare verso forme democratiche più dirette pensiamo forse che queste siano prive di costi? Basti pensare che per garantire a tutti l’accesso consapevole a decisioni di varia natura e competenza (politica interna, estera, economica, fisco, sanità, ecc…) occorrerà definire strumenti di informazione e formazione capillari, arrivare ad un livello culturale elevatissimo per tutti e una crescita interiorizzata del senso della responsabilità collettiva perché le decisioni non possono partire dal solo bisogno individuale ma anche e soprattutto da un sentire collettivo, assumendo come propria la responsabilità delle conseguenze per l’intera comunità nazionale e globale, senza pensare alla fornitura degli strumenti informatici che tradizionali, che consentano la reale partecipazione di tutti i cittadini.

Questo risultato è possibile solo all’interno di una società che parta da una diversa distribuzione economica, di risorse, mezzi, possibilità, che non escluda nessuno, ma che includa ogni essere umano nell’accesso ad una vita di studio, cura, lavoro.  Questo è il punto centrale, va affrontato a livello globale, in un mondo in cui ancora acqua, cibo, cure non sono accessibili a centinaia di milioni di persone. È attorno alla lotta alle differenze sociali che si forma e consolida la democrazia. È attraverso la democrazia che si dà forza alla lotta contro le differenze.

Dunque tutto diverso da quello che fin ora è stato proposto.

A meno che, e questo è il nodo, non si voglia in realtà nascondere dietro alle parole altisonanti di democrazia diretta e libertà dei cittadini, un obiettivo ben meno luminoso, quello di legittimare attraverso un consenso guidato decisioni di pochi, quindi una oligarchia.

Dunque lasciamo che la nostra democrazia resti rappresentativa e lo resti pienamente per il tempo che ci serve per trovare soluzioni ancor più aperte, ma senza demagogia e senza la fretta di chi ci propone soluzioni facili, che non solo non risolvono i problemi, ma rischiano di portarci verso una deriva tutt’altro che democratica.

Sono questi i motivi che ci inducono ad esprimere il NO al referendum confermativo del 20 e 21 settembre, in linea con la libertà di coscienza indicata dalla Direzione di ARTICOLO UNO.

 

Articolo UNO Veneto

Forum Donne – Articolo UNO Veneto

 

Testo elaborato da Elena Paolizzi e Laura Bassi