Da qualche tempo, con sempre maggiore insistenza, si parla d’un’economia della cultura. Si guarda, cioè, alla cultura come a un comparto produttivo che non manca di determinare effetti tangibili sulla crescita (intesa soprattutto in senso qualitativo) e l’occupazione. Nondimeno occorre stare attenti: perché nelle cose della cultura, il mercato – a chi qualcosa è diretto – può avere un rilievo, purché non si perda di vista il concreto lavoro di chi effettivamente fa cultura. Più dell’impresa contano le audaci imprese. Diversamente c’è il rischio di una visione strumentale, utilitaristica della cultura. O di una subalternità a logiche aziendalistiche. Mentre il modello dell’opera culturale è molto più consonante con quello dell’artigiano, dell’artefice del lavoro ben fatto.
Si può produrre una maggiore corrispondenza della politica culturale con le ragioni del fare cultura? Certo; ma a condizione che vi siano comprensione e rispetto per queste ultime, sapendo che del contributo pubblico, in qualche forma e in qualche misura, specie nel campo dei beni culturali, raramente si può fare a meno. Nella gestione dei beni culturali il problema è di inserire quote sempre maggiori di qualità nell’erogazione del servizio, non già quello, ideologicamente, di privatizzare.
Nello stesso tempo si insiste sulla valorizzazione. La Costituzione prevede anche la tutela. La quale riguarda lo Stato, ma non solo lo Stato; in taluni casi spetta anche ad altre istituzioni, non solo alle demonizzate Soprintendenze, anche agli Enti locali. Per esempio, in materia archivistica. Il sistema della cultura è fatto di archivi, biblioteche, musei, di una complessità che ha ancora bisogno dell’affermazione dell’interesse pubblico. Sicché è inappropriata ogni forma di contrapposizione tra tutela e valorizzazione; si tratta di una divisione dei compiti prevista in Costituzione. Mai trascurare l’articolo 97, quello del buon andamento, facendo bene attenzione al suo significato, al contempo, virtuoso e dinamico.
Mentre emergono le esigenze dell’economia della cultura, non bisogna smettere di sostenere l’autonomia della cultura. Non bisogna perderne di vista i valori, quelli tipici dell’istituzione culturale. Occorre reimpostare ciò che diciamo la politica culturale sulla concretezza vissuta del patrimonio culturale. Occorre ripartire, in primo luogo, da lì, dai beni culturali, per impostare le attività culturali. Anche in questo caso, meglio ricominciare dalle fondamenta che continuare a lavorare sul tetto di un edificio che non regge più: e discutere di un’idea di cultura per il Paese. Marc Fumaroli ci ha insegnato a pensare alla politica culturale come a qualcosa che assume un significato soprattutto quando serve a valorizzare il sistema delle istituzioni culturali, senza trascurare quel genius loci che si dispiega nella trama territoriale. Tutela e valorizzazione, insieme a una gestione attenta alla fruizione, devono sempre più diventare parti di una stessa visione coordinata.
E’ stato calcolato come New York incassi 7 dollari per ogni dollaro speso in biglietti per ingressi ai musei o per visite a gallerie d’arte. E’ in questo modo che la cultura si fa motore di sviluppo economico, non con i cedimenti al mercato nella tutela dei beni culturali, non dismettendo, ma potenziando, rendendoli più efficaci, i compiti dello Stato. Se ne parla talvolta come del nostro petrolio; un’espressione particolarmente infelice: la cultura non è non combustibile fossile, ma un’energia rinnovabile, non inquinante, che definisce l’ambito di un’ecologia non solo dell’ambiente e del paesaggio, anche della vita civile.
Gli esperti dicono che, in un futuro non molto lontano, il turismo potrebbe essere la più grande post-industria mondiale. Continua, specie nei paesi più sviluppati, la lunga marcia del tempo libero. Qualcosa che si accompagna ai fenomeni tipici delle società mature. In questa prospettiva assume un particolare rilievo un turismo culturale di dimensioni planetarie, con una progressiva liberazione del tempo, dal lavoro alla vita, di cui il tempo libero, con il viaggio, è destinato a diventare un ingrediente sempre più rilevante. Uno dei beni comuni del futuro sarà l’allargamento della dimensione del tempo; di fronte ad uno spazio rimpicciolito dalla velocità dei trasporti e dall’interconnessione. L’Italia vanta un indubbio primato culturale. Limitarsi a ripeterlo non ci aiuterà a fare dei passi avanti.