Dopo il decennio della doppia crisi, il lavoro si è frammentato e cristallizzato unitamente alla produttività stagnante (da fine anni Novanta). Si produce poco e le idee veramente nuove scarseggiano. Le competenze sono carenti, e le scuole, in molti casi, non preparano alle tipologie di lavoro necessarie.
Il tasso di occupazione nella fascia 25-34 anni dal 2007 in poi è sceso dal 70% al 62%. L’Italia ha un tasso di disoccupazione doppio della media Ocse (10,7% a fronte del 5,2%) e oltre la media Ue (6,5%). Risulta ancora più serio il tasso di disoccupazione per quanto riguarda i giovani: pari al 33%. Quindi, un giovane su tre non lavora. Anche in questo caso il valore è doppio sia della media Ocse (11%) che di quella Ue (14%). I salari sono piatti, quelli reali sono addirittura diminuiti nel 2017. Come se non bastasse, il reddito medio 2018 è a livello di quello del 1998.
Il lavoro è stato sempre più svalutato, ponendo attenzione invece sempre più su quello che si produce e i margini di profitto in ogni fase di trasformazione. I lavoratori, quindi, sono assoggettati non solo alle merci, ma anche al tempo e, in molti casi, a oscuri algoritmi. Il lavoro si è anche impoverito, e i lavoratosi si sentono collocati ai margini. Emergono e si impongono nuove forme degenerate di lavoro dal vecchio stile di caporalato (che coinvolge in particolare i lavoratori migranti) al neocaporalato (nella logistica, nella grande distribuzione e nel turismo).
Le catene di montaggio sono uscite dalle fabbriche della rivoluzione industriale per entrare in modo pervasivo nelle vite delle persone. Anche lavori che apparentemente emanano libertà imprenditoriale sono sottoposti a ritmi ben più serrati di quelli della struttura fordista.
Le organizzazioni sindacali fanno fatica a rappresentare i nuovi lavori, ed è sparita qualunque rappresentanza politica. È particolarmente significativo che mentre il ruolo della politica sul lavoro negli anni è aumentato, dall’altro lato il lavoro si è sempre più allontanato dalla propria rappresentanza politica.
Oggi, chi lavora si sente quasi avvolto in una cappa grigia si sociale che politica, e questo crea insicurezza diffusa. Mettere al centro il lavoro in una prospettiva ecosocialista vuol dire, pertanto, porre attenzione sulle lavoratrici e lavoratori, affrontare le reali necessità delle persone per garantire un futuro migliore per tutti.
Un Paese senza politica industriale, senza priorità produttive, non tutela i lavoratori. È sempre più urgente (ri)dare valore e centralità al lavoro. Perciò la sinistra deve rimettere al centro dell’agenda il lavoro. In un’ottica ecosocialista è fondamentale un piano di investimenti pubblici (a livello nazionale ed europeo) per la riconversione ecologica, la messa in sicurezza del territorio, e ristrutturazione degli edifici pubblici. Poiché una società che non si prende cura di tutti gli aspetti del lavoro e della vita è una società che non svolge il suo ruolo cardine. Quindi, lo stato dovrebbe generare lavoro per il bene comune, ridurre la disoccupazione per ridurre le diseguaglianze.
La politica deve interessarsi delle condizioni e della qualità del lavoro, e trovare soluzioni adeguate per fronteggiare le conseguenze della diffusione delle nuove tecnologie. La vera innovazione, pertanto, dovrà riguardare il fattore umano.
La crisi del 2008 dimostra in maniera inesorabile che il neoliberismo ha perso. Però, nonostante tutto, continua nella sua azione per provocare disuguaglianze, distribuzione ingiusta della ricchezza, impoverimento, e deterioramento della qualità della vita.
I riders (ciclo-fattorini che consegnano merci alimentari e di altra tipologia), sono considerati lavoratori autonomi, non dipendenti. Ma, a ben considerare, dipendono da un algoritmo. Infatti, sono pagati a cottimo, sulla base delle consegne. In questo caso convivono il presunto futuro, l’algoritmo (lo strumento progettato per l’efficienza economica), e il cottimo (una delle più antiche modalità di controllo dei lavoratori).
Solo mediante una prospettiva ecosocialista è possibile tornare a occuparsi dei grandi temi, di una vera (ri)progettazione sociale. Le proposte di governo dovranno partire dall’Italia e, necessariamente, estendersi all’Europa; con l’ambizione di farsi concreto modello globale.
Infatti, serve un’Europa che garantisca parità di diritti sociali e uguali condizioni di lavoro a tutti. Poiché l’assenza di uniformità favorisce gli episodi di dumping, ossia bisogna evitare che le aziende si trasferiscano dove le tasse sono più basse per pagare, inoltre, meno chi lavora.
È necessario, in questo quadro, rafforzare il potere legislativo del Parlamento europeo e permettere all’Europa la facoltà di imporre tasse uguali per tutti (sia persone che imprese).
In conclusione, quindi, prendiamoci come impegno di non parlare di lavoro episodicamente (per esempio nelle immediate vicinanze del primo maggio), ma ogni giorno dell’anno, avendo ben chiaro il futuro che vogliamo costruire insieme.