L’intervista di Matteo Salvini sul Washington Post non è una esternazione rituale. È il battesimo di una leadership politica che si candida a pesare anche oltre i confini nazionali. Il disegno culturale di cui si fa portavoce il ministro dell’Interno si colloca dentro un flusso mondiale che in cima ha messo da tempo la rinazionalizzazione della politica e la demolizione delle istituzioni di governo globale uscite dalla Seconda guerra mondiale. Quattro sono i messaggi che mi paiono rilevanti, che cambiano nei fatti la collocazione geopolitica dell’Italia e, persino, la sua funzione storica di media potenza mediterranea.
1) La Lega – e dunque il Governo Conte di cui è nei fatti il dominus – è collocata saldamente nell’internazionale populista e nazionalista che vede come riferimenti politici e morali Putin e Trump. I due campioni della nuova destra mondiale che puntano ad animare una nuova Yalta per spartirsi in rispettive aree di influenza il mondo, chiudendo definitivamente la stagione del multilateralismo. Non contano più la NATO, l’Onu, il G7. Una politica di potenza commerciale, militare ed energetica che punta a un nuovo ordine mondiale fondato sulla paura.
2) L’Europa è la vittima predestinata di questo impianto. D’altra parte lo ha detto in maniera chiara Donald Trump, definendola nemico numero uno degli Usa non più tardi di una settimana fa e invitando addirittura Theresa May a intentare una causa con l’Ue sulla gestione della Brexit. Nel frattempo il presidente Putin non ha esitato a lavorare in questi anni a disarticolare l’assetto europeo, scommettendo sull’estrema destra come ariete di sfondamento di un disegno che non ha mai condiviso e che ha sempre considerato una minaccia per la sovranità del suo paese. Anche attraverso l’uso di un armamentario ideologico prima, e tecnologico poi, tutt’altro che convenzionale.
3) L’alleanza dei partiti populisti punta a trasformare l’Europa in una fortezza, non in una comunità democratica di popoli. Paradossalmente, la crisi indotta dalla destra fa vincere la destra sovranista. Con la sinistra non pervenuta. L’obiettivo dichiarato è semplice: Europa minima, logica intergovernativa portata fino allo stremo, liberismo compassionevole. E la politica dei dazi e dei muri come arma contundente da scagliare ogniqualvolta la temperatura sociale sul piano nazionale aumenta e alimenta l’esigenza di individuare un nemico da colpire. Sullo sfondo, arrancano classi dirigenti europee che al ripiegamento sovranista reagiscono con meschini egoismi di bottega elettorale e nessuna visione strategica che rimetta al centro la domanda di giustizia sociale diffusa in quelle classi medie colpite da anni di austerità espansiva.
4) La vocazione mediterranea dell’Italia si limita alla battaglia navale sui porti da aprire o chiudere. Nessuna lettura della profondità di processi migratori che sono frutto dell’esplosione demografica dell’Africa e di un lungo residuo neocoloniale che continua a sottrarre risorse e trasformare quella terra nella vittima sacrificale di un modello di sviluppo che cancella la sostenibilità dal suo orizzonte. Dentro questa gara a chi è più predatore, c’è l’adesione acritica alle scelte di Trump in Israele, compreso l’insediamento dell’ambasciata statunitense a Gerusalemme. Provocazione che ha generato un vero e proprio incendio in intere aree del Medio Oriente e che rappresenta il tentativo di minare forse definitivamente un processo di pace ormai in crisi profonda. Tutto nei giorni in cui Israele si dichiara “urbi et orbi” stato etnico e certifica la condizione di apartheid del 20 per cento dei suoi cittadini. C’è da domandarsi cosa pensino i Cinque Stelle a tal proposito, visto il loro impegno nella scorsa legislatura sul riconoscimento dello Stato di Palestina. Ma anche su questo avranno cambiato idea, evidentemente.
Insomma, una vera e propria “svolta” nella politica estera del nostro Paese. Cambiamo collocazione e interlocutori. Non vederne la pericolosità sarebbe non solo miope, ma criminale.