Così l’Europa può salvare il lavoro (e se stessa) dopo il Coronavirus

| politica

La Commissione europea ha deciso di emettere un prestito di 100 miliardi di euro, garantiti con un contributo volontario dai paesi dell’UE per dare vita a SURE, un programma di finanziamento della cassa integrazione per proteggere il reddito dei lavoratori al quale potranno accedere i Paesi membri. Quando saranno emanate le regole di funzionamento sarà possibile dare un giudizio definitivo su questa misura.

Nessuno deve perdere il lavoro e il proprio reddito: l’UE deve concentrare le risorse per  rendere più concreto il perseguimento di questo obiettivo.

Dopo la sospensione dei trattati sul debito e lo stanziamento di 750 miliardi di euro della BCE, si aggiungerebbe un altro strumento di contrasto agli effetti della pandemia.

La difesa della struttura produttiva e dell’occupazione deve essere la priorità assoluta delle  istituzioni nazionali ed europee e tutti i finanziamenti previsti vanno vincolati al perseguimento di questo obiettivo strategico.

Il governo italiano, insieme ad altri, sta conducendo una difficile trattativa per istituire un fondo comune europeo che finanzi gli interventi necessari al superamento dell’emergenza e al rilancio dell’economia: la realizzazione di uno strumento come gli eurobond o i coronabond, sarebbe il quarto e decisivo pilastro di una strategia radicalmente diversa da quelle seguite nel passato.

Articolo Uno sostiene in pieno l’azione del Presidente del consiglio.

È opportuno, infatti, che vi sia equilibrio tra gli interventi dei singoli Stati, che producono un aggravio dei bilanci pubblici, e quelli comunitari i cui oneri saranno suddivisi tra i Paesi membri attraverso il principio fondamentale della solidarietà.

Gli interventi comunitari, infatti, potranno essere finanziati a lungo termine e con bassi tassi di interesse grazie alle garanzie delle istituzioni finanziarie europee. Il Mes, meccanismo europeo di stabilità, non ha queste caratteristiche dato che ha una durata di due anni e impone condizioni stringenti di rientro dal debito contratto.

Questo equilibrio è fondamentale per i singoli paesi membri, certamente lo è per l’Italia ma lo è, forse ancor di più per il futuro dell’Europa.

La miopia della attuale posizione della Germania e di alcuni Paesi del nord Europa consiste nel non comprendere o, nel mettere in secondo piano, che l’unità e la coesione economica e sociale dell’Unione sono requisiti essenziali per avere voce in capitolo sullo scacchiere internazionale.

Se dopo l’uscita dall’emergenza, ci fosse una disparità ancora maggiore di quella attuale tra i paesi del sud e quelli del nord o, peggio ancora, si verificasse una crisi del debito pubblico di uno o più Stati, è evidente che l’attuale struttura dell’Unione rischierebbe di andare in frantumi con conseguenze politiche, oltre che economiche e sociali, devastanti.

Occorre, al contrario, rafforzare le politiche comunitarie e tutelare la capacità d’intervento dei singoli Stati attraverso i propri bilanci nazionali per impedire che il modello sociale europeo venga superato a vantaggio di una visione liberista e compassionevole.

Sono già in azione forze potenti che lavorano per giungere a questo esito.

L’Europa, dopo la crisi, potrebbe essere  ancora più debole sulla scena mondiale nei confronti delle altre grandi potenze mondiali come USA, Cina e Russia e la tutela della propria autonomia ed indipendenza diventerebbe ancora più difficoltosa di quanto già non sia ora.

Inoltre la parabola dell’Ungheria è lì a dimostrare che basta poco per scivolare verso un regime autoritario e, sebbene il portato storico dei paesi occidentali sia molto diverso da quello dei paesi dell’ex blocco sovietico, la suggestione nazionalista è forte e va combattuta con scelte di governo ispirate dagli ideali di giustizia sociale e solidarietà.

La tendenza degli ultimi anni mostra un’ascesa economica e politica di Paesi retti da regimi autoritari o dittatoriali che sono riusciti a governare a proprio vantaggio le dinamiche della globalizzazione a differenza delle democrazie liberali che appaiono in difficoltà sia sul terreno della competizione internazionale che su quello del consenso al proprio tradizionale sistema politico.

Le motivazioni che sono alla base di queste opposte tendenze chiamano in causa i limiti del modello liberale novecentesco e gli errori di strategia delle classi dirigenti europee e ci mettono di fronte ad un cambio di fase storica dagli esiti niente affatto scontati.

La crisi provocata dal coronavirus ha spinto molti intellettuali e leader politici a rievocare gli anni 20 del secolo scorso quando alcune giovani democrazie appena uscite dall’esperienza lacerante della I guerra mondiale furono travolte da movimenti autoritari di massa.

Si parlò di tramonto dell’Occidente. Un concetto che viene ora rievocato in un contesto del tutto diverso.

La storia non si ripete mai ma l’ammonimento resta.

Allora le elites europee non compresero la portata degli eventi e si chiusero a difesa di un ancien regime che la guerra aveva seppellito: oggi occorre superare la medesima tentazione di difendere lo status quo a vantaggio, effimero, di residui interessi nazionali e di una concezione della democrazia di stampo oligarchico, di guardare il dito anziché la Luna.

Rafforzare il ruolo e gli strumenti a disposizione delle istituzioni europee e riformare il capitalismo per rilanciare il modello di coesione sociale continentale, rinnovare la democrazia mettendo al centro la forza del lavoro e sconfiggere le destre nazionaliste che vogliono tornare ad un’epoca che non c’è più.

Per perseguire questi obiettivi occorre un movimento politico socialista e democratico, nazionale ed europeo fortemente ancorato alla rappresentanza del mondo del lavoro.

Un movimento che ancora non c’è ma del quale si sente la massima urgenza.

Piero Latino

Responsabile nazionale Lavoro di Articolo Uno. Coordinatore metropolitano di Articolo Uno Roma