La proposta di Pietro Grasso sulle tasse universitarie ha suscitato grande interesse, apprezzamenti e critiche. La tendenza prevalente è stata quella di sottovalutare il significato e la portata della proposta affermando che con essa anche Liberi e Uguali si adeguava al costume abituale dei partiti italiani di fare promesse costose senza indicare le fonti di copertura, e quindi demagogiche e irrealizzabili. In realtà l’attenzione alla finanza pubblica non manca certo nel programma di LeU, anzi essa è un punto di critica rispetto alle politiche e agli insuccessi dei governi Renzi e Gentiloni. Il costo della proposta, tra 1,5 e 2 miliardi, è infatti facilmente integrabile in una ristrutturazione e riorganizzazione della finanza pubblica. Peraltro, ciò che politicamente è rilevante rispetto ad altre proposte di costo confrontabile, come l’abolizione delle tasse auto o del canone televisivo, è la rilevanza del settore cui si rivolge che rappresenta uno dei punti deboli della società italiana, ma fondamentale per le sue prospettive di crescita futura.
Un grande piano di rilancio della scuola pubblica è al centro dell’attenzione di Liberi e Uguali, e l’Università è inevitabilmente al centro del centro. E’ stato detto che la proposta avvantaggia i ricchi, dato che sono prevalentemente i loro figli ad andare all’Università, e dato che per i poveri sono già previste esenzioni e riduzioni delle tasse. Ma così non è: data la crisi e il decadimento delle Università pubbliche, oggi figli dei ricchi tendono a rivolgersi prevalentemente alle Università private, e sempre più di frequente direttamente a quelle straniere. I più avvantaggiati dalla proposta sono in realtà i figli delle classi medie, per le quali le tasse universitarie (che si aggiungono a tutti gli altri costi di mantenimento di un figlio all’Università) sono un onere non trascurabile e che sono quelle relativamente più colpite dalla crisi. E in proposito devo fare una personale autocritica, avendo affermato, in buona compagnia, che l’Università in Italia è sostanzialmente gratuita; in verità così non è, anzi le tasse universitarie in Italia si collocano a un livello elevato nella media europea (tra i 3 e i 4000 euro l’anno).
In ogni caso, l’aspetto che va sottolineato è che la proposta si inserisce in un modello di Università diverso da quello attuale. Se l’accesso è libero e gratuito, come in Germania e nei Paesi scandinavi, diventa indispensabile stabilire che anche in Italia gli studenti sono tenuti a rispettare un percorso educativo prestabilito e basato su tempi certi di studio condizionati al superamento degli esami nei tempi previsti, sia pure riconoscendo una ragionevole flessibilità. In caso contrario, si perde il diritto di frequentare l’Università pubblica, proprio perché essa è finanziata con i soldi di tutti. Il modello implica quindi il recupero della serietà e dell’impegno nello studio, con l’obiettivo e la prospettiva di ridurre in misura radicale il problema dei fuori corso e degli abbandoni.
Nel contesto del nuovo sistema sarebbe inoltre possibile superare, sia pure gradualmente, il problema del numero chiuso che è un meccanismo altamente inefficiente di selezione preventiva. Nel sistema descritto, infatti, la selezione, o autoselezione, si verifica essenzialmente alla fine del primo anno di corso. Ciò implica che la sua attuazione richiede un rilevante rafforzamento dei corsi del primo anno in tutte le Facoltà, e particolarmente in quelle più affollate, vanno quindi affrontati i relativi processi di riorganizzazione didattica e predisposti gli investimenti necessari.
In questo contesto il diritto allo studio per i meno abbienti dovrebbe prevedere anche alloggi studenteschi che potrebbero essere gratuiti per gli studenti provenienti dalle famiglie meno abbienti, valutate in base all’ISEE, e a pagamento per gli altri.
Concludendo, siamo di fronte a una proposta complessa di riorganizzazione degli studi superiori in Italia e non semplicemente a una detassazione per ottenere consenso.