Veniamo da una stagione di dura disintermediazione, ha scritto Giuseppe De Rita ieri sul Corriere della Sera. La rete sociale che faceva da ‘ponte’ tra partiti e società è stata smantellata in nome di un rapporto diretto con gli elettori, realizzato prima di ogni scadenza importante con massicce campagne di opinione oppure con robusti e diffusi rapporti clientelari, costruiti a partire dai notabilati e potentati locali. Attorno ai partiti è venuto a mancare un brodo di coltura: un’area collaterale di soggetti sociali, associazioni, rappresentanze grazie alle quali i partiti stessi non si sentissero affatto soli, il rapporto con la società e gli interessi diffusi fosse mantenuto saldo e le istituzioni potessero trovare una mediazione stretta con la base sociale del Paese. I grandi partiti di massa non erano soltanto costituiti di vertici e sezioni, ma anche di collateralismo sociale e associativo: un grande meccanismo assicurava, in tal senso, partecipazione, prossimità, comunicazione e, dunque, consenso reale e diffuso. Finita questa stagione, anzi buttata ai pesci nell’illusione che i media (e oggi i social) da soli potessero garantire la medesima tenuta egemonica, è sopraggiunta l’era del marketing politico-commerciale, della battaglia di opinione, dello scontro leaderistico, della disintermediazione, dei guru. Il passaggio non poteva essere indolore, anzi: ha accentuato la crisi della politica, consegnandola in modo determinante alle strategie dei guru, che oggi siedono accanto ai leader politici come principali consiglieri, oppure ai tecnici, che decidono le sorti della nazione sulla base delle mere ‘competenze’ personali. Le stesse istituzioni, a partire da quelle rappresentative, si sono indebolite al punto da essere ritenute quasi una ‘zavorra’ per l’esecutivo, e per le brillanti (nemmeno tanto a dire il vero) strategie di comando di qualche giovane leader.
È come se la piramide dello Stato e i vertici della politica oggi si affacciassero direttamente sull’abisso che li separa dai soggetti sociali ormai ridotti allo stato puro di utenti, clienti, compratori, usufruenti, destinatari di offerte. Obiettivi viventi, insomma, delle strategie di ‘accalappiamento’ che scadono spesso nel triviale, oppure in liste della spesa, proposte (anzi promesse) in caso di vittoria elettorale: bonus, sgravi, sconti, tagli unilaterali delle tasse. Niente più che una strategia commerciale d’accatto scambiata per politica. Nulla delle azioni di tipo egemonico-culturale che i grandi partiti sviluppavano verso la società, che erano nello stesso tempo una garanzia di tenuta sociale e di coesione, oltre che di ascolto permanente e capillare. Oggi l’ascolto, al più, è quello dei focus group, la comunicazione è unilaterale, si compone di messaggi alto-basso, vertice-base, la politica è ischeletrita, i partiti sono soltanto delle piccole meduse che tentano di incantare elettori (sempre di meno) disincantati (sempre di più). L’astensione è divenuta ‘il’ problema (a parte gli sciocchi che la sottovalutano con le motivazioni più strambe o di parte). In questo stagno sempre più secco, abitato sempre meno da pesci e sempre più da zanzare e parassiti, dove il modello agente è quello tecnico, della comunicazione pura, non più quello della comunicazione sociale applicata alla politica, il destino dei partiti è fatalmente segnato e il vuoto collaterale attorno li ha svuotati. Il contesto tecnico-mediale, l’idea che il sistema delle opinioni sparse e individuali fosse tutto, la convinzione che la campagne di opinione potessero sostituire la vita associata: sono questi fattori causali che hanno ingenerato il disastro di oggi, le secche in cui sguazziamo davvero in malo modo.
È stata la fine di ogni ‘collateralismo’, di ogni rete egemonica culturale e sociale, del senso dei partiti per la rappresentanza ad averli messi in secca. Non la scomparsa delle ideologie (in realtà vive e vegete) e non solo il mondo che cambiava, come pensano astrattamente in molti. La morte termica delle grandi comunità politiche e del loro mondo è dovuto anche alla tecnica che si è impossessata della pigra classe dirigente di questi decenni, e della contro-egemonia che i media hanno esercitato sulla politica. Una specie di vendetta delle ‘casematte’, che Gramsci diceva andassero occupate per diffondere pensiero nuovo, e che invece hanno reagito ‘tecnicamente’ occupando militarmente il nostro pensiero, il pensiero della sinistra. Che ha perso, in questi decenni, uno scontro ideologico tremendo, tale da mettere in questione la sua stessa esistenza. Oggi la parola d’ordine ‘ricostruire un sistema dei partiti’, equivale a dire ‘torniamo alla mediazione sociale’, ramifichiamo le comunità, puntiamo sulla rete associativa, sulla società che si organizza civicamente, territorialmente, socialmente. È falso problema quello di contrapporre politica e civismo, partiti e società civile, è solo un segno dell’avvenuta sconfitta egemonica. La politica, in realtà, deve ricostruirsi immaginando la sussidiarietà sociale come una ‘forza’, e il civismo non deve essere contrapposto ai partiti rinascenti, ma esserne un punto di forza. È come se il riscatto fosse tutto nella tessitura di una nuova ‘maglia’ politico-sociale quale linfa dei nuovi partiti di massa. Certo, tenendo presenti le attuali condizioni storiche, avendo chiaro il tipo di soggetti sociali oggi in scena, pensando una società che vive e muore di precarietà, disuguaglianze, povertà sociale e culturale, una società in crisi, insomma, una post-società quasi. Ma senza ritenere che la politica possa riprodursi affidandosi solo alle élite, ai tecnocrati, ai guru che pensano campagne di opinione. La disintermediazione è una specie di tossina per una società come la nostra, rompe legami già flebili, spezza ponti e isola le istituzioni nella vuota astrattezza politica. Le fake news, in fondo, sono solo il frutto più rognoso e velenoso di questo andazzo. Tornare alla mediazione, al dialogo, al rapporto, alla rappresentanza, alla relazione come medicina culturale ancor prima che politica; ricostruire l’autorità sulla rappresentanza, non viceversa; pensare il conflitto nella concretezza di un tessuto politico, sociale, istituzionale; immaginare la comunicazione come ancella della politica, non viceversa è quasi un obbligo, a cui la sinistra nuova, che si riunifica, non può assolutamente sottrarsi.