Ci risiamo. Renzi che brandisce l’arma della crisi di governo, la maggioranza che rischia di andare in frantumi alla curva più stretta: quella del Recovery fund.
L’occasione – per dirla con un po’ di enfasi retorica – di una generazione politica per dimostrare che ha una visione di società e non soltanto la capacità di conservare il potere.
Il leader di Italia Viva ieri ha contrapposto alle scelte di Conte un’impostazione parlamentarista sulla gestione dei fondi europei, criticando la struttura di missione individuata dal premier, chiedendo di ricostruire una trama istituzionale più coerente con il pluralismo della maggioranza.
Un discorso potente, costruito per parlare a una platea più larga di quella di chi frequenta gli scranni parlamentari, a partire dall’accenno ai pieni poteri negati a Salvini come frontiera estrema della sua battaglia politica e culturale.
Chi ascoltava da casa avrà pensato che eravamo alla vigilia di un golpe, di un attentato alla Costituzione, di una prepotenza dettata da una fame di potere infinita dell’attuale inquilino di Palazzo Chigi.
Ho conosciuto Matteo Renzi da un osservatorio privilegiato nella scorsa legislatura, quella di capogruppo parlamentare di una forza di opposizione: allora, ma forse la memoria fa brutti scherzi, non ricordo una sua particolare sensibilità davanti alle prerogative delle assemblee elettive.
Il ricorso alla fiducia persino sulle leggi elettorali, la sostituzione dei parlamentari in commissione, le sedute fiume sulla riforma costituzionale, la moltiplicazione dei commissariamenti, l’accentramento delle nomine governative, la decretazione d’urgenza, le conferenze dei capigruppo che duravano ore perché l’allora Ministra dei rapporti con il Parlamento ingaggiava bracci di ferro continui con qualsiasi istanza proposta dalle opposizione.
Si sa, la strategia di una minoranza nel gioco parlamentare talvolta è quella di guadagnare tempo rispetto alle scelte dell’esecutivo, provare a modificarle se non addirittura a farle decadere. Il mestiere di rubare il tempo, come scrive oggi Mario Sconcerti sul Corriere della Sera, per ricordare il grande Paolo Rossi. Tutto questo non ci è stato concesso mai, durante la parentesi renziana.
D’altra parte, il rottamatore aveva teorizzato – è storia vera, non leggenda purtroppo – la sostituzione del binomio sinistra-destra con quello di velocità-lentezza. E lui era quello veloce, noi quelli lenti. Il Parlamento veniva concepito come la curva di uno stadio e molti colleghi di quel periodo sembravano i capi tifoseria di una squadra che sembrava destinata a vincere sempre.
E invece a un certo punto quella squadra perse. Si era inceppato qualcosa nel rapporto con il paese, forse perché l’arroganza era diventata troppo grande, esibita, oserei dire quasi sistemica. Quella sconfitta, a dire il vero, travolse tutti, anche quelli che l’avevano contrastata orgogliosamente.
Eppure traeva radici proprio dalla insostenibile leggerezza con cui tutte le regole e le prassi democratiche venivano saltate, rivendicando un mandato popolare che invece aveva la sua legittimità nel Parlamento e non in una fantomatica elezione diretta.
Qualcuno aveva scambiato le primarie di un partito con il presidenzialismo e concepiva l’aula come una sezione del Pd.
Il referendum spazzò via questa illusione, forse perché gli italiani concepivano la Costituzione come l’ultima riserva di unità nazionale che era sopravvissuta a un paese che aveva visto cadere i pilastri della democrazia rappresentativa fondata sui partiti.
Ma questo è il passato: le urgenze di oggi ci impongono di fare i conti con la realtà, con i rapporti di forza di questa stagione politica, con i repentini cambi di orientamento che appaiono giravolte opportunistiche.
Una crisi in piena pandemia sarebbe una follia, non ce lo perdonerebbe nessuno, ed è chiaro che essa si sta dispiegando attorno al potere, a chi gestisce cosa.
Non va sottovalutata, né trattata con una riserva di moralismo.
Non ho dubbi che Renzi farebbe esattamente quello che sta facendo Conte, qualora abitasse ancora a Palazzo Chigi. La struttura di missione è inevitabile innanzitutto perché di fronte a una valanga di miliardi da investire, il nostro apparato pubblico non ha automaticamente la forza di programmare e di investire.
D’altra parte, nel corso degli ultimi anni – anche quelli fulgidi del renzismo – la burocrazia italiana è stata più allenata a tagliare che a spendere. E qui davvero il fattore tempo è decisivo, altrimenti questi soldi volano via e con essi l’ultima chiamata per l’ammodernamento sociale, ecologico e digitale del nostro paese.
Il tema è la trasparenza, la collegialità, il coinvolgimento parlamentare, le relazioni con le parti sociali.
Premesso che il Recovery andrà comunque votato dal Parlamento, forse la partita vera che andrebbe affrontata laicamente è la vigilanza sulla programmazione, la gestione e la spesa dei fondi. Coinvolgendo formalmente tutti i gruppi parlamentari.
Come esiste una commissione bicamerale sulla Vigilanza Rai, con poteri tutt’altro che secondari, il Parlamento può varare una commissione bicamerale di vigilanza su Next Generation Eu.
Si tratta di una modesta proposta, che può aiutare a fluidificare i rapporti tra Esecutivo e Parlamento, tra forze politiche della maggioranza, tra maggioranza e opposizione.
Non credo tuttavia che questo basti a Matteo Renzi. Temo persegua un altro obiettivo, quello di cambiare il segno sociale dell’attuale Governo, fino addirittura a teorizzare il ricorso a un esecutivo tecnico.
Una parte dell’establishment d’altra parte trova insopportabile che a guidare la sfida della ricostruzione del paese postpandemia sia un’alleanza che non lo vede direttamente coinvolto nella stanza dei bottoni. Troppe concessioni al mondo del lavoro, compreso il blocco dei licenziamenti fino alla fine dello stato di emergenza piuttosto che l’ingresso di attori pubblici nel core business di aziende strategiche. E lorsignori sono abituati a comandare, soprattutto quando di mezzo ci sono i soldi.
Ma questo gioco va scoperto quanto prima. Va sfidato Renzi, nonostante Renzi. Proprio sul terreno di gioco che lui ha scelto: il Parlamento.