Esattamente 50 anni fa, il primo dicembre 1970, l’approvazione della legge sul divorzio apre la stagione delle riforme degli anni Settanta, nel clima di eccezionale fermento politico e di protagonismo di grandi movimenti di emancipazione: il movimento operaio, le donne, gli studenti.
In quegli anni, mentre la famiglia diventa un luogo di cambiamenti profondi e le donne aspirano a relazioni più paritarie, la legge sul divorzio è destinata a diventare un aspro terreno di scontro ideologico tra forze progressiste, che spingono per la modernizzazione del paese e forze reazionarie, radicalmente contrarie alla legge, in nome di un ordine “naturale” al quale appartiene l’indissolubilità del matrimonio.
La vittoria del fronte progressista al referendum del 1974, acquista un grande significato simbolico e costringe a un’accelerazione del dibattito sulla revisione del codice civile. Mentre la Carta costituzionale fin dal 1948 riconosce la piena parità di diritti e doveri tra i coniugi, il codice civile del 1942 norma una famiglia fondata sulla potestà maritale e sulla subordinazione di moglie e figli, riproducendo un modello di matrimonio fondato sulla regola giuridica di base del “possesso e non dell’amore, della proprietà e non dell’appartenenza reciproca”, come scrive Stefano Rodotà, in “Diritto d’amore”.
Tra molte resistenze e tanti ritardi, l’approvazione del nuovo diritto di famiglia porta la data del maggio 1975. Nel nuovo testo, la prospettiva cambia: con il matrimonio marito e moglie acquisiscono gli stessi diritti e gli stessi doveri, concordano l’indirizzo della vita familiare, educano i figli tenendo conto delle loro inclinazioni ed aspirazioni. Nella nuova legge si incontrano le idee di emancipazione femminile ed una impostazione più comunitaria e personalistica dell’istituto familiare.
Sono le donne – dentro e fuori le aule parlamentari – le protagoniste di una lunga battaglia di modernizzazione, che punta a spazzare via assetti giuridici obsoleti e leggi in palese ed evidente contrasto, oltre che con la vita ed il sentire reale, anche con le conquiste della Costituzione.
Le istanze di autonomia, libertà ed emancipazione aprono rivolgimenti profondi, cambiano la vita e la politica, mettono in discussione ordini e gerarchie.
E’ una rivoluzione portata avanti tra grandi resistenze, sacrifici e battaglie, individuali e collettive: la “gestazione” del nuovo diritto di famiglia dura ben 8 anni – la prima proposta di modifica del codice risale al 1967 – durante i quali si susseguono 3 legislature e mutamenti politici, economici e sociali di grande rilievo; ci vorranno decenni prima di ottenere riforme come l’ammissione delle donne in magistratura (1963) o la cancellazione del delitto d’onore (1981). L’iter travagliato della legge contro la violenza sessuale dura due decenni: le norme che trasformano la violenza da reato contro la morale a reato contro la persona è del 1996, approvata dopo venti anni di raccolte di firme, manifestazioni, iniziative politiche.
E’ la Costituzione che ha aperto la possibilità del successo di quelle battaglie e della piena cittadinanza femminile, in particolare la formulazione dell’articolo 3 sulla quale, come noto, incisero proprio le costituenti, che caratterizzarono il principio di eguaglianza con le espressioni “senza distinzione di sesso” e come “eguaglianza di fatto”, promuovendo, dunque, il principio di eguaglianza su un piano sostanziale e non solo formale. E’ anche noto come durante la discussione in seno all’assemblea Costituente le resistenze al principio di parità furono molte. Suscitò dibattito la pretesa di un matrimonio ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi. E così, mentre l’articolo 29 riconosce la parità tra i coniugi, attraverso l’articolo 37 si richiama il ruolo tradizionale della donna come moglie e madre, la sua “essenziale funzione familiare”. Formulazioni che rendono conto delle ambiguità e delle mediazioni tra culture e visioni divergenti.
Dobbiamo al ruolo e alla capacità delle costituenti la costruzione di una mediazione, che ha consentito il cammino di parità dei decenni successivi, in particolare nel decennio fecondo che furono gli anni settanta. Fu Nilde Iotti che, contro il proposito di introdurre in Costituzione l’indissolubilità del matrimonio, avanzò con chiarezza una visione della famiglia come centro di vita morale e di solidarietà – riprendendo una formulazione gramsciana – ed un’idea di emancipazione femminile, che ritroveremo nella battaglia per la legge sul divorzio e nella discussione sulla riforma del diritto di famiglia.
Furono le donne, insomma, le interpreti di questo difficile passaggio dalla Costituzione alle norme. Durante gli anni Settanta potremmo ancora ricordare la legge istitutiva dei consultori familiari, la legge sull’interruzione di gravidanza, la legge istitutiva del Sistema sanitario nazionale, leggi nelle quali furono impegnate tante donne, ricordiamo tra tutte Tina Anselmi, prima ministra del lavoro. Leggi delle donne, ma destinate alla civiltà del paese, che hanno messo al centro le persone, perseguendo un’idea di giustizia ed eguaglianza delle relazioni sociali.
Una grande opera collettiva di cui non va persa non semplicemente la memoria, ma il senso profondo, perché sappiamo bene che i diritti non sono acquisiti per sempre. Perché quelle che sembrano acquisizioni scontate, soprattutto alle giovani generazioni, sono state, invece, l’esito di lotte. Ora il divorzio è diventato breve, grazie alla legge approvata nella scorsa legislatura, si accorciano i tempi della separazione adeguando le norme ai cambiamenti della realtà; è certo che le cose si sarebbero potute fare meglio, riconoscendo fino in fondo il rispetto dei tempi della vita di ciascuno ma, si sa, resistono ancora arretratezze e chiusure. La cittadinanza femminile, nonostante tante conquiste e tanti passi avanti, è ancora incompiuta, incerta e problematica. I tragici numeri sulle violenze e sui femminicidi – che avvengono, per la maggior parte, in seno alle famiglie – la mancanza di occupazione, la precarietà del lavoro, gli ostacoli che incontrano le donne che lavorano o che decidono di diventare madri, la debolezza di tanti aspetti del nostro welfare, persino la mancata approvazione di una legge che non costa come quella sul cognome materno, ci dicono che oggi più che mai è necessario ed urgente un grande lavoro riformatore, di progetto, cultura politica e proposta delle donne.