Ci possiamo salvare, ecco come. Lettera ai bambini di Taranto

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Lo sviluppo, l’innovazione, la ricerca e le nuove tecnologie salveranno il mondo. Questo almeno sono in molti a credere.

Ma chi salverà l’uomo da se stesso e da ciò che di peggiore può fare attraverso il progresso tecnico -scientifico?

Vorrei offrire un contributo a questa domanda rivolgendomi, in termini semplici, ai bambini di Taranto, che qualche giorno fa hanno sfilato per la città insieme ai genitori che hanno perso i loro figli a causa di patologie (prevalentemente neoplastiche) morbigene che hanno conosciuto – anche a causa della presenza delle già Acciaierie ILVA – un picco di oltre il 50% sulla popolazione infantile.

 

Cari bambini,

mi chiamo Gabriele e, insieme a mia moglie, faccio il papà di tre bambini. Viviamo a Torino, una bella città che da un lato ha grandi colline verdi di boschi e dall’altro le bianche montagne con la neve.

Molti di voi hanno sfilato per la città – il 25 febbraio scorso – perché molti bambini sono stati male a Taranto. Alcuni respirano male, altri non sono venuti a scuola per molti mesi. Qualcuno non si è proprio più rivisto.

Voi capite che si tratta di una cosa molto grande e difficile e però – almeno così io insegno ai miei figli – non è mai troppo presto per mettersi sotto per capire qualcosa e darsi da fare: anche voi avete una responsabilità di aiutare gli altri bambini a stare meglio e a far in modo che domani non ci siano altre persone malate.

Vi scrivo perché penso di potervi aiutare, se non altro a radunare le idee e a fare una scaletta di cosa da fare.

Anzitutto bisogna capire cosa sta succedendo: è come il pompiere che – vedendo il fumo uscire da una casa – deve capire in quale camera c’è il fuoco, per poterlo così spegnere meglio.

Se pensiamo a quanto sta succedendo la prima immagine che viene in mente, almeno credo a non pochi di voi, è costituita dalle fabbriche, dalle acciaierie, dalle ciminiere.

In effetti è di lì che arrivano le polveri, i fumi e i vapori che – negli anni – hanno fatto stare male tante persone. Le ciminiere però non funzionano da sole; e la polvere vola perché qualcuno non l’ha raccolta prima. Chi è allora il vero colpevole di queste malattie?

La risposta è semplice: l’abitudine a non curarsi degli altri. Tutto inizia di lì. Magari hai un compagno di classe che fa fatica con i compiti; potresti aiutarlo, ma preferisci andare a giocare e lasciarlo da solo.

Poi diventi grande, studi tanto, ti dicono di fare qualcosa che sai potrebbe far male agli altri, però preferisci pensare a te, a tornare presto a casa, a non avere problemi. E così lasci che la polvere piano piano entri in tutte le case e faccia star male le persone.

Per cambiare le cose bisogna invertire questa dinamica, e per farlo voi bambini siete molto più importanti dei grandi: voi avete vissuto meno anni un modo di comportarsi che (nell’insieme, come mondo che avete ereditato) ha prodotto tanta sofferenza. Per questi siete più capaci di cambiare, e di far cambiare il mondo attorno a voi.

Per mettervi al lavoro vi servono forse due idee su cosa fare.

Secondo me ci sono due grandi obiettivi: fare stare bene i bambini che stanno male e le loro famiglie; chiedere che sia fatta bene giustizia per quanti sono stati male o non ci sono più.

Iniziamo dalla seconda, che è la più difficile. Fare giustizia è un po’ come quando la maestra ci mette in castigo, e sappiamo di aver fatto una cosa brutta. Il castigo serve a noi a ricordarci che è brutto comportarsi male, e serve anche agli altri compagni per sentire che fanno bene a non comportarsi male.

Fuori da scuola anziché la maestra ci sono altre persone che giudicano, ovvero che ascoltano le persone che litigano, decidono cosa fare loro fare e i litiganti devono fare quello che dice loro il giudice, altrimenti il poliziotto li va a prendere a casa e li porta in prigione. Non è molto diverso dal castigo a scuola, sono che anziché risolversi in pochi minuti ci vogliono spesso anni.

La giustizia che abbiamo in Italia (ovvero le maestre che avrebbero dovuto mettere in castigo quegli uomini che – gestendo le fabbriche – hanno fatto uscire le polveri che hanno fatto star male le persone) è però una giustizia umana. E questa non basta davanti al grande dramma che la vostra città ha vissuto e sta vivendo.

Quando ho visto le vostre immagini alla televisione, e ho sentito le parole dei papà che hanno perso i loro bambini (perché troppo malati), io ho pianto tanto. Piangere è una cosa buona, perché ci ricorda che siamo vivi e che viviamo, soffriamo e amiamo insieme agli altri (per questo è così bello mangiare a casa tutti insieme quando ci si vuole bene e c’è armonia).

Qualche volta si piange di gioia, come quando rimaniamo estasiati davanti a una notte con tante stelle brillanti, o ascoltando il suono del mare. Altre volte si piange di dolore.

Non c’è niente di male nella sofferenza, e non fa bene fare finta che non ci sia o che non stiamo male. L’importante però è cercare un senso, una ragione vera per la quale valga la pensa, si possa accettare di soffrire.

La mia nonna diceva “chi non sa per cosa è disposto a morire non sa neanche per quale ragione continua a vivere”. Morire non è una cosa brutta: nelle nostre città ci sono tante statue e monumenti per persone che sono morte, che hanno fatto un grande sacrificio per permettere a noi di vivere in pace (senza la guerra), di poter scegliere come vogliamo organizzarci sui nostri territori.

Se cerchiamo allora di capire perché tanti bambini sono stati male a Taranto dobbiamo dire che la ragione c’è: qualcuno (più di uno, tante persone) hanno sbagliato a contare i soldini.

Dovevano spendere tanto per comprare grandi aspirapolveri e garantire che l’aria di Taranto fosse pulita pulita come quella del mare; e invece non li hanno comprati e hanno dato i soldini ad altri (a delle persone che, anche se non hanno lavorato, hanno preso un pezzo dei guadagni fatti producendo l’acciaio).

Chiedere giustizia per i vostri compagni di scuola e per i loro genitori vuol dunque dire anzitutto capire chi doveva mettere gli aspirapolveri (e non li ha messi) e chiedere che si cambino le regole che permettono a chi non ha lavorato di prendersi i soldini con i quali invece si potevano fare tante belle cose per la salute di chi ha lavorato in fabbrica e di tutti gli abitanti, a partire da voi bambini.

Per portare queste persone davanti a un giudice, però, potrebbero servire molti soldini. E’ vero che lo Stato paga tanti bravi detective che fanno le indagini (come Poirot o Basil l’Investigatopo); però spesso chi non ha messo gli aspirapolveri (ve lo dico perché per lavoro incontro tutti i giorni lavoratori che si sono ammalati perché nelle fabbriche si dovevano mettere ma tanti hanno dimenticato di metterli) è stato anche pagato tanto come stipendio, e quindi può comprarsi esperti e consulenti che inizieranno a dire che “non è certo” che quelle polveri facessero male, o che “non è provato” che la polvere che abbia fatto male a una singola persona è uscita dalla fabbrica proprio quando il responsabile degli aspiratori avrebbe dovuto metterli.

Se volete giustizia per i vostri amici, ve lo scrivo come lo direi ai miei figli, prendete un foglio di carta e fatene una busta. Scriveteci sopra i nomi (massimo cinque, dal sesto in poi fate un’altra busta, e così via) di chi vuole partecipare, e si impegna a portare in giro la busta e chiedere (ad amici, parenti, e a tutti quelli che incontrate) di “mettere un soldino per la propria responsabilità verso la strage dei bambini di Taranto”.

Sono pochissime le persone che possono dire di non avere neanche un euro di responsabilità. Ricordate di tenervi tutti organizzati in rete, e di non dividere mai i soldini che raccogliete.

Quando ne avrete raccolta una busta bella grande, portatela al Comune, chiedendo che si faccia garante della buona gestione dei soldini e che li dia ai genitori dei bambini malati (e di quelli che non ci sono più) per pagare le spese processuali vive (quindi solo le spese per avere ottimi esperti da portare davanti ai giudici).

Fatto questo avrete fatto la vostra parte di giovani cittadini per quanto riguarda il bisogno di giustizia. Come persone, non smettete di stupirvi davanti alla bellezza della natura, alla gentilezza delle persone e a tutto ciò che di bello e autentico trovate sul vostro cammino. Conservate il ricordo della malattia e dei compagni che non sono tornati a scuola: è vostro dovere studiare anche per loro, vivere anche per loro e anche per loro costruire un mondo migliore.

I bisogni di giustizia non si fermano però alla maestra e al castigo, e neanche ai giudici e ai poliziotti.

Oggi, domani, dopodomani, ci sono tanti bambini che stanno tutto il giorno dentro l’ospedale, o che non possono uscire dalle loro camerette. Non sappiamo per quanto staranno con noi, ma dipende da noi quanto e come noi staremo con loro.

Voi bambini – che a differenza dei grandi non avete ancora tanti impegni e anche le preoccupazioni spesso legate al lavoro – avete più tempo per pesare a come migliorare la vita dei vostri compagni malati.

Fate rete: create contatti fra le scuole e gli ospedali, andate a trovare spesso i vostri amichetti, portate loro libri e oggetti belli. Se non ne avete prendeteli in prestito dalle biblioteche e dai musei.

Chi sta male nel fisico deve poter almeno stare bene nello spirito: portate ciò che di più bello e prezioso avete sul letto di quei bambini che non possono più uscire e correre. Se avete una bella felpa, a cui tenete tanto, regalategliela: stare in ospedale o a casa rende tristi. Si mette sempre e solo il pigiama, e a lungo andare non fa bene all’umore. Se avete un quadro o un poster che vi piace tanto, portatelo in ospedale e chiedete se potete appenderlo lì, per i bambini malati.

Non dimenticatevi dei genitori; spesso i grandi non fanno vedere quanto stanno male, o quanto gli mancano i figli che hanno perso. Se potete abbracciateli, o fate loro un sorriso, e coinvolgeteli nelle vostre attività per aiutare altri bambini.

Ovunque andiate, portate la speranza; e a chi vi chiede come fate a sperare davanti a tanto dolore e sofferenze, voi rispondete con semplicità: un mondo in cui ciascuno si prende cura degli altri è l’unico futuro in cui altri bambini potranno vivere e non morire (sia nel corpo, che nello spirito quando – anche solo momentaneamente – malati) e voi lottate per questo, nell’azione ma anzitutto nel conservare la speranza (come la candela nella lanterna quando c’è tanto vento).

Un mondo così è bello, come è bello prendersi cura degli altri, tenere un cucciolo in mano o aiutare la mamma a fare qualcosa.

Un mondo più bello e più giusto è possibile, e dipende da voi.

Gabriele D'amico

Torinese, avvocato, appassionato di diritto ed economia della cultura, dottorando fra Berlino e Gerusalemme in diritti umani e diversità culturale. Consapevolmente olivettiano, credo nella capacità umana di superare la gregarietà del sistema limbico e ragionevolmente spero in un futuro di sviluppo umano integrale.