Avevo dodici anni il 23 maggio 1992, quando morì Giovanni Falcone.
A scuola, la mia insegnante di lettere ci assegnò una ricerca, avremmo dovuto leggere e ritagliare degli articoli su Falcone, sua moglie – il magistrato Francesca Morvillo – e tutti gli agenti della scorta caduti insieme a loro in quella che fu battezzata come la Strage di Capaci.
Non avevo mai sentito parlare della mafia prima di allora, e nemmeno di Giovanni Falcone.
Quella ricerca, quella strage segnarono per sempre il corso della mia vita e quella di un’intera generazione: anni dopo, per seguire le orme di Falcone avrei scelto di studiare legge; anni dopo, per portare avanti, nel mio piccolo, la battaglia di Falcone avrei preso la mia prima tessera di partito.
Per svolgere quella ricerca scolastica, lessi e ritagliai articoli per giorni, volevo sapere tutto di quell’uomo dal sorriso timido e la volontà di ferro, che aveva fatto da scudo allo Stato nella lotta contro la mafia.
Dei mesi immediatamente successivi alla strage ho ricordi nitidi, fotografie indelebili: la gente in corteo per mano per strada che si teneva per mano; le lenzuola bianche che sventolavano dai balconi assolati; l’esercito che, in una grigia mattina di maggio, invase Palermo; l’orgoglio crescente per una coscienza collettiva che si risvegliava o che, forse, si formava per la prima volta.
Per la prima volta, infatti, ci sentivamo parte di qualcosa, quel boato aveva fatto a pezzi cinque vite e un tratto di autostrada all’altezza di Capaci, ma aveva avuto il potere di rimettere insieme i pezzi del nostro spirito di cittadinanza e di una comunità che, fino ad allora, si sentiva disgregata e sola, ma che, in quel momento di dolore, si era riscoperta una e unita.
La rabbia e il dolore della moglie di Vito Schifani che, durante i funerali, ebbe il coraggio di sussurrare ai mafiosi tra le lacrime “Io vi perdono, ma voi vi dovete mettere in ginocchio…” erano la nostra rabbia, il nostro dolore.
Con quel tritolo, a Capaci, la mafia aveva dichiarato guerra allo Stato, ma lo Stato non si poteva arrendere, doveva andare avanti.
Sulle nostre gambe.
Lo dovevamo a quell’uomo che aveva trascorso undici anni della sua vita nel suo ufficio bunker al Palazzo di Giustizia di Palermo, a costruire il più grande processo della storia giudiziaria italiana, il maxiprocesso di Palermo.
Lo dovevamo a quell’uomo, grazie al cui metodo di lavoro erano stati messi in ginocchio i vertici di Cosa Nostra, oltre 2 mila anni di carcere furono inflitti ai boss che, fino a quel momento, ci erano sembrati intoccabili, eterei, invincibili.
E invece no.
Falcone fu il primo che ci disse che la mafia esisteva e che non era una favola folcloristica fatta di coppole e lupare; ci disse che la mafia si nascondeva dietro i soldi (“Follow the money”) e che era intorno a noi, in mezzo a noi.
Fu il primo che – grazie anche al primo collaboratore di giustizia, Tommaso Buscetta – ci raccontò la struttura più intima di quella piovra, di quella organizzazione criminale chiamata ‘Cosa Nostra’, che aveva usato e abusato dei valori siciliani più tradizionali per affondare le sue radici e soffocare la parte più sana della nostra terra.
Falcone fu il primo a capire non solo che la mafia si doveva combattere, ma a capire come la si doveva combattere, perché, tra gli uomini dello Stato, fu il primo a conoscerla veramente, a comprenderla, a capirne la sua natura di sistema di potere, di articolazione del potere che del potere stesso si fa metafora e patologia al tempo stesso.
Fu il primo a dirci che lì dove lo Stato spesso era assente, la mafia era presente, che lì dove il cittadino si sentiva solo con i suoi diritti e doveri, la mafia si candidava a essere una soluzione alternativa al sistema democratico.
Ecco cosa ci ha lasciato, Giovanni Falcone, non solo i frutti del suo lavoro immane, non solo un metodo investigativo che ancora oggi viene utilizzato nei processi di criminalità organizzata, ma soprattutto l’esempio di un uomo dello Stato che per lo Stato si è battuto, fino alla fine.
Non senza dolore, non senza amarezze, non senza rinunce, ma, certamente, senza clamore, con dignità e – lui sì – onore.
Falcone si è battuto senza agitare crocifissi in aria o lanciare invettive contro finti nemici pubblici, senza indossare divise non sue, ma rispettando tutti i corpi dello Stato e quei poliziotti che, al suo fianco, sono vissuti e sono morti.
Questo era Giovanni Falcone.
Curioso che oggi a Palermo, a ricordarlo, nel ventisettesimo anniversario della sua morte, a ricordare la sua vita e il suo sacrificio, ci sarà Matteo Salvini, l’attuale Ministro dell’Interno, uno che l’antimafia la fa festeggiando gli arresti a colpi di tweet; uno che trascorre più giorni in campagna elettorale che nel suo ufficio al ministero; uno che la mafia crede di combatterla con provvedimenti come il decreto sblocca cantieri, senza rendersi conto (vogliamo sperare!!) che l’unica cosa che saranno in grado di sbloccare norme come quella sono le tangenti che alimentano il sistema di corruttele che le gonfia le tasche della criminalità non le svuota; uno che, per farsi rispettare, sbatte i pugni e alza la voce.
Uno che, ci piace pensare, probabilmente non sarebbe piaciuto a Giovanni Falcone, lui che la voce non l’alzava mai, ma sarà per questo che Falcone lo ricordiamo, ogni anno, con commozione e Salvini, invece, speriamo di dimenticarlo presto.