C’è una domanda che risuona insistentemente ogni qualvolta si sia dinanzi a un passaggio importante: che fare? Dentro a questo interrogativo ci sono tutte le ragioni della politica, non una di meno. Perché se la politica non “delibera”, non sceglie nel quadro di compatibilità e di legislazione presenti, cosa ci sta a fare?
Il tentativo di Draghi sembra un caso di scuola. Il Presidente incaricato non ha confini di programma e di coalizione. È tutto un campo di contenuti e di confini da costruire. E davanti ci sono oltre 200 miliardi di euro da investire nel cambiamento del Paese, a vantaggio della sua parte più fragile. In uno scenario epidemico per il quale servono le risorse migliori. La Meloni può farsi i suoi conti, perché quella è la destra che specula sulle difficoltà delle altre forze politiche. Vogliono un punticino in percentuale in più. Noi no. Noi dobbiamo stare nel mezzo della contesa e darci da fare. Uniti possibilmente: ci riferiamo alla maggioranza Conte, la cui compattezza è decisiva per pesare in modo decisivo sull’uso delle risorse e sulle strategie sociali e sanitarie. Ma anche in termini elettorali successivamente.
Il governo Draghi sarà un governo dai confini slabbrati, sarà un campo di contesa, un rivolo di tensioni, sarà un governo caso per caso. Non si distinguerà nettamente dall’opposizione, forse nemmeno l’avrà un’opposizione nettissima. Il governo Draghi sarà tagliato in due da un fronte segmentato, sarà il luogo di una guerra di posizione destinata a diventare, prima o poi e di certo dopo il semestre bianco, una guerra di movimento. Come si può decidere di stare all’opposizione in tal caso, se la situazione sarà probabilmente questa? Se stare fuori vorrà dire andare in panchina a guardare la partita da bordo campo? Come pensare di tirare un passo fuori dall’esecutivo, se il fronte, la trincea, lo scontro sul Recovery sono lì? La disponibilità della Lega questo dice: dopo il ‘no’ iniziale, qualcuno ha sussurrato all’orecchio di Salvini: non fare sciocchezze i soldi sono lì, non nella rendita di posizione della presunta opposizione, tantomeno nella insulsa richiesta di elezioni.
Alla domanda ‘che fare?’ si risponde dunque: entriamo al governo con la maggioranza Conte unita. Alla successiva domanda, anche questa di prammatica: come?, si risponde invece con determinazione, con durezza, senza sconti, con quella cattiveria che la sinistra non ha mai avuto, tant’è che un qualsiasi bulletto può mandarci in difficoltà e farsi beffe. “Buonisti” va bene per il Paese più fragile, per il bisogno di protezione sociale, per chi è ultimo, per i cittadini che ogni giorno lavorano, pagano le tasse, tirano la carretta mentre attorno si evade e si grida contestualmente “meno tasse per tutti”. Ma poi, verso gli avversari, nella lotta dentro le istituzioni, nel confronto quotidiano, serve la cattiveria, serve il “cattivismo”.
E allora non si fanno sconti, il confronto deve essere duro e determinato, le richieste nette, la mediazione condotta con la mano sulla colt. Non è il momento di Piero e della sua guerra, tantomeno del papavero rosso che resta romanticamente solo, piantato in mezzo al campo di grano. Se avessimo avuto questo carattere in altre circostanze, adesso non staremmo così, col sedere a terra e dubbiosi. Quando affrontammo il terrorismo mostrammo coraggio e determinazione da vendere. Forse questo coraggio, questa determinazione si sono persi per strada. Diluiti nei social. Dimenticati, credendo che siano soltanto carattere della destra, quando sono invece il carattere della politica.
Ma che vuol dire anche “cattivismo”? Noi diciamo significhi anche “metodo Renzi”, che consiste, come sappiamo, nello spingere sempre sull’acceleratore, tenere sul filo il governo, arrivare a un filo dalla rottura pur di allineare le scelte alle necessità del Paese più fragile, sofferente, ultimo. Un “metodo Renzi” che si adotti finalmente a vantaggio del popolo, non di Lor Signori come si è fatto sinora, portando inevitabilmente alla improvvida defenestrazione di Conte. Come si può pensare che fare politica significhi tirare di fioretto, e non anche di sciabola o di clava? Ecco oggi serve la sciabola, e serve una presenza al fronte unita e determinata della maggioranza Conte, che passa proprio dentro Palazzo Chigi, che traversa il governo Draghi, come una ferita dura da sopportare.
E per restare alle metafore belliche, in ultimo, diciamo che non si può lasciare la truppa, peraltro sconfitta da una specie di Caporetto, senza una linea. La “linea” in politica è fondamentale, è un segno netto di demarcazione ed è il frutto delle scelte e dei deliberati, come si diceva. È l’orientamento che rende la politica non una descrizione “tecnica” della situazione, non una fotografia magari sagace, ma una presa di posizione pubblica, una decisione, una spinta, un atto di coraggio indispensabile. Trent’anni or sono, a poche ore da un evento si riuniva una segreteria, una direzione, un comitato direttivo e si discuteva, si decidevano cose, e poi se ne comunicavano gli esiti alle migliaia di persone che guardavano a quella forza politica per capire che fare, come, secondo quale percorso, quali tappe, quale forza. Oggi no, oggi, in questo strano crocevia politico, dopo una defenestrazione che sa di sconfitta ultima, epocale, siamo tutti un po’ soli e facciamo da noi, in autonomia, con una specie di bricolage. È il segno inequivocabile di una crisi della politica ormai dirimente, giunta a uno stadio di non ritorno.
Quando hanno colpito Conte, intendevano anche colpire un esecutivo che, nel suo piccolo, stava “riunificando” un popolo, stava amalgamando spezzoni di cittadini e di opinione pubblica posizionati sin ad allora in campi opposti e conflittuali. E lo faceva in nome di valori e di una spirito democratico che rendevano questa unificazione un ottimo viatico per il futuro. Una cosa inaccettabile per i nostri avversari (a partire dai presunti alleati). Quel tentativo andava combattuto, bloccato per ragioni politiche, per evitare una saldatura di popolo, una svolta, un salto in avanti, com’era già accaduto altre volte nella storia della sinistra e della democrazia italiana. Ecco perché oggi è necessario rispondere a quelle due domande (che fare, come) con nettezza, con decisione, con “cattiveria” appunto, determinazione, forza. Noi nel nostro piccolissimo ci abbiamo provato, e altri come noi lo hanno fatto. Ma certo, questo da solo non può bastare. Il fai da te in politica porta alla solitudine e a una sconfitta ancor più cocente. Serve un partito. Possibilmente grande, plurale e di sinistra democratica.