Goffredo Bettini non scrive un testo di memorie. Faccio fatica infatti a considerarlo semplicemente un rendiconto. Certo, l’autore non si sottrae alla descrizione minuziosa dei fatti recenti che hanno investito la sinistra italiana, le discese e le risalite, le svolte incompiute e i tentativi di ricostruzione di un campo di alleanze.
Se c’è una qualità che va riconosciuta a Bettini è innanzitutto la generosità verso i fatti, senza reticenze e senza ricami retorici. Ovviamente, chi si limita a cercare semplicemente il suo punto di vista sulla cronaca politica lo trova e può uscirne soddisfatto anche sul terreno dell’aneddotica. Dalla difficile gestazione della segreteria Zingaretti alla imprevedibile saldatura del governo giallorosso e del rapporto con Giuseppe Conte, fino ai retroscena sul patatrac delle alleanze post caduta del Governo Draghi.
Ma francamente penso che questo aspetto nel libro “A sinistra. Da capo” sia comunque marginale. Certo, Bettini è un protagonista, spesso suo malgrado, di tanti di questi passaggi, e nonostante la sua indole poco propensa a calcare la dimensione pubblica dei media diventa a un certo punto il bersaglio da attaccare, a partire da quel terzo polo che ne farà una sorta di bestia nera da additare come il grande manovratore di tutte le scelte tattiche degli ultimi anni. In realtà è solo una trovata propagandistica, la solita vigliacca caccia al capro espiatorio di turno che ha provato a dare – insieme ad altri – un senso, una sostanza e persino una base teorica al matrimonio tra centrosinistra tradizionale e l’insorgenza populista – per quanto il termine andrebbe dosato con molta cura – dei Cinque Stelle.
Bettini non è un manovratore, piuttosto è un lottatore. E come tutti quelli che lottano finisce tante volte per prenderle, soprattutto in una fase storica, dove all’indomani della pandemia e della svolta del next Generation Ue si apre una contesa per stabilizzare in senso moderato il quadro politico e sociale italiano. Troppe risorse da gestire per una compagine di governo, l’asse cosiddetto giallorosso, sopportata come eccessivamente irregolare e socialmente connotata da chi ha sempre comandato senza avere né i voti né tutto sommato i titoli.
Ma, ripeto, si farebbe un torto a questo testo se finissimo per piegarlo solo sulla crudezza del presente, che con un’originale struttura letteraria che ricorda Luigi Pintor – piccoli e brevi paragrafi sempre graffianti e capaci di legare sapientemente quelli precedenti e quelli successivi – mette finalmente in campo uno sforzo di analisi della società italiana e della stagione del ripiegamento della globalizzazione, sui meccanismi estrattivi del capitalismo moderno e sullo smarrimento antropologico dell’Occidente che si trova improvvisamente periferico di fronte alle trasformazioni dell’economia e della divisione internazionale del lavoro.
Goffredo prova a delineare uno sbocco, riconosce gli eccessi di ottimismo di lunghe – troppo lunghe – stagioni di governo e riflette sulla frattura che si è aperta tra chi sta sotto e chi sta sopra. Non propone un banale ritorno alle origini, nonostante ponga tutti davanti a una responsabilità storica: quella di non aver compreso che la storia si muove attraverso “scintille” – come fu l’ottobre del 17 – che mobilitano milioni di esseri umani verso l’aspirazione insopprimibile alla giustizia. Quelle scintille sono i conflitti sociali, che sono qualcosa di più della semplice dialettica della democrazia dell’alternanza.
Quello che mi ha colpito di Bettini è la curiosità verso l’umano, la capacità di osservare persino la gestualità del quotidiano – colpisce la descrizione della solitudine che invade persino i luoghi naturali della socialità come una cena al ristorante tra una coppia che preferisce armeggiare con lo smartphone piuttosto che parlarsi -, fino alla domanda di fondo su una società dove il conflitto tra la felicità delle cose semplici e la competitività di vite fondate sul dilemma tra rischio e libertà appare irrisolvibile e disperante.
Per Goffredo non esiste politica senza innovazione nella tradizione, benché i riferimenti al suo maestro Pietro Ingrao, ma persino a Chiaromonte – la sobrietà della politica – non appaiano mai nostalgici, ma il metro di misura di una sinistra che ha smarrito persino la potenza degli esempi. Dentro questa riflessione la guerra resta il grande nodo irrisolto, l’alfa e l’omega della sua angosciata ricerca di un inedito ricominciamento della sinistra.
E dunque l’interrogativo sul nuovo ordine mondiale e l’assunzione – cosa rara tra i dirigenti della sinistra – della perifericità di un occidente che non riesce più a parlare a enormi masse di uomini e donne in movimento verso una domanda di benessere più armonico nella distribuzione delle risorse naturali e materiali. Qui c’è la grande rimozione delle classi dirigenti democratiche, incapaci di capire che l’eurocentrismo è stato archiviato dall’affacciarsi sulla scena globale di domande nuove, dove la democrazia non è più garanzia automatica di crescita e dunque o si riforma attraverso un nuovo protagonismo della questione sociale o verrà inevitabilmente inghiottita da suggestioni autoritarie.
Di qui l’incubo della guerra, dell’armageddon atomico che si riaffaccia sul destino dell’umanità – colpisce il riferimento di un Berlinguer che a Comiso consuma forse la sua battaglia più importante – e la furia bellicista che lambisce persino il linguaggio quotidiano della sinistra, senza lasciare spazio a nessuna forma di ripensamento davanti alla necessità di inaugurare una nuova stagione di disarmo e di coesistenza pacifica.
La sintesi tra socialismo e cristianesimo forse sta proprio qui, ed è l’intuizione più forte del libro. Mi viene da pensare al segretario del Pci che nel pieno della battaglia contro gli euromissili sulla Rocca di Assisi parla della “lucida follia” di Francesco contro la mitologia della guerra, nel pieno della riacutizzazione della guerra fredda. Cresce un certo disincanto verso il pacifismo politico, come se fosse un capriccio di qualche anima bella. Io credo invece che quella domanda di pace rappresenti l’urgenza di un ritorno della politica, capace di riappropriarsi di un ruolo e di una funzione nel momento in cui lo spazio della politica sembra limitarsi soltanto all’esibizione muscolare delle armi.
Ed è forse l’antidoto fondamentale di quella “mezzadria dell’anima” che è la principale ossessione di un uomo fondamentalmente innamorato della sinistra come Goffredo Bettini. E che dovrebbe essere l’ossessione di tutti quanti noi.