L’appello di Conte ai responsabili ha una sua nobiltà, al di là dello sciocchezzaio che raccontano anche i giornali. In fondo questa parola, “responsabilità”, sul lato sia personale sia pubblico, è stata una delle parole-chiave nella risposta alla pandemia ed è, dunque, molto coerente appellarsi a essa in Parlamento. Il punto, per quanto dirimente, non è la fiducia in se stessa, ma le prospettive, perché solo da queste dipende l’efficacia delle scelte compiute attualmente in Aula. Crediamo, addirittura, che la riuscita del tentativo contiano dipenda tantissimo anche dalla capacità delle forze politiche di ridisegnare la geopolitica italiana, ovviamente a sinistra. Mai come oggi il partito nato dalla vocazione maggioritaria perde colpi. Oggi, almeno, particolarmente. E proprio a causa, peraltro, di quella scelta originaria compiuta dall’allora gruppo dirigente, quando si trattò di ‘amalgamare’ culture politiche diverse in un unico “scatolone” cuperliano. La vocazione maggioritaria cancellò ogni trattino e produsse una certa confusione teorico-pratica, nella quale ancora quella comunità si dibatte. Il renzismo che prese il potere, Calenda che vi transitò, il centrosinistrismo che non si capiva se finisse nel Pd o lo travalicasse, non depongono a favore del Partito democratico o, meglio, della sua natura politica precipua. Molta confusione deriva anche da quella scommessa geneticamente modificata e sbagliata, che intorbidò la creatura sin dall’inizio.
Conte, dicevamo. Il suo tentativo di proseguire la rotta del governo deve necessariamente fare i conti con la geopolitica che oggi disegna il Paese e le istituzioni. E dunque con le forze che lo sostengono: non si dà alcuna strategia se non sono chiare la gambe che dovranno sostenerla. E le gambe, in questo caso, sono tutte fuori misura o inadeguate. Se centrosinistra nuovo deve essere, lo sia allora nel modo dovuto, avviando un’opera di cambiamento anche all’interno dei soggetti in scena. In sintesi: il Pd deve oltrepassarsi in una forza larga, plurale, che attinga a piene mani nella tradizione politica della sinistra italiana: comunisti, socialisti, cattolici. Niente di nuovo, come si vede dai nomi, ma tutto di nuovo, visto che un partito così, ancorato a sinistra e senza strane vocazioni di alcun genere, non è affatto esistito in tempi recenti, anzi. Il Pd faccia da leva e da detonatore di un processo unitario, rifondativo, che veda il coinvolgimento effettivo delle altre forze minori, consapevoli che piccolo è bello sino a un certo punto. E che in politica fanno più gioco la “massa critica”, la forza, le dimensioni, dalle quali sì che possono poi sopraggiungere la persuasione e la capacità egemonica, non il contrario. Un partito di sinistra dove ci si senta a casa: ecco il claim, anzi la formula politica, dopo decenni di diaspora e di frammentazione. Una comunità inclusiva che sia tale anche per le minoranze, anche per le singole personalità, senza più che risuoni quell’orrido grido (fuori, fuori) dalla sala d’attesa della stazione preferita (oggi diremmo capolinea) del Capo di turno.
Detto questo, la seconda gamba dovrebbe essere costituita da un Movimento che concluda la lunga marcia nelle istituzioni, presso le quali si senta finalmente a suo agio, ma senza perdere l’ancoraggio popolare, e senza cessare di essere una sorta di antenna piantata stabilmente nella società civile e nei suoi umori. La terza gamba, invece, dovrebbe essere costituita da un ‘centro’ politico che sappia presidiare le istituzioni, che raccolga forze repubblicane e liberali particolarmente attente ai diritti e alla garanzie democratiche. Queste tre gambe dovrebbero essere rigorosamente distanziate da solidissimi ‘trattini’, che se da una parte differenziano e conservano le identità senza vocazioni di sorta, dall’altra uniscono ben più di ogni tentativo di amalgama a caldo o a freddo che sia. Un centrosinistra (pardon centro-sinistra) dove al calderone politico si sostituiscano soggetti pienamente responsabili (riecco la parola), capaci di un patto politico ancor prima che elettorale, poggianti (meglio) su una base proporzionale, perché il maggioritario non rispetta le basi reali del consenso e irrigidisce la dialettica politica, la schematizza e personalizza, spingendo alla ricerca di fronti, poli, uno-contro-uno, e scioglie i partiti come neve al sole. Quando sappiamo, invece, che la democrazia e la politica, prive di un sistema dei partiti, mancano di nervi e ossatura, diventando flaccide e spugnose.
Il ‘trattino’, dunque, come una sorta di salvagente, come il tentativo di restituire agli italiani i partiti, le fazioni, le comunità, le “case” a partire dalle quali fare politica è più efficace e più partecipativo, oltre che più chiaro e distinto. “Case” che possano a loro volta costituire una città, grazie ai “trattini” del dibattito pubblico, delle alleanze, delle grandi missioni politiche. E senza andare a vivere tutti in tensostrutture che non reggono il vento forte del cambiamento e crollano al primo refolo di Renzi che passa.