Il maccartismo – definizione che usa oggi il Premio Nobel Giorgio Parisi su la Stampa – non fu un incidente della storia americana. Non fu l’impazzimento di una persona sola che si gettò nella crociata anticomunista credendo di salvare l’America per missione divina. Non fu nemmeno un disegno delineato con precisione e linearità da un solo governo di marca conservatrice. Non tutto era preordinato, studiato a tavolino, costruito per filo e per segno con indiscutibile sapienza scientifica.
Il maccartismo fu un movimento – supportato certamente da un clima politico internazionale isterico e irrazionale – che scandì il tempo buio della Guerra fredda e consentì di tenere la società americana sulla corda della paura del nemico esterno fino agli anni Sessanta, da cui scaturirono domande di libertà e di autonomia che seppellirono l’ignominia della delazione, della censura, del pregiudizio.
Ci finirono sotto migliaia di intellettuali, attori, registi, scrittori, giornalisti. Alcuni ritrattarono, altri furono marginalizzati e ridotti al silenzio, altri ancora addirittura esiliati.
Il caso Rovelli ci spiega che gli anticorpi che abbiamo nei confronti del potere sono scarsi e talvolta finiamo per fare scelte preventive e opportunistiche, non indotte da un’entità sovraordinata. Solo per evitare incidenti, che innanzitutto danneggino noi stessi.
Alcuni la definirebbero prudenza, a me sembra una forma strisciante di conformismo preterintenzionale.
Probabilmente è accaduto questo a Ricky Levi: meglio evitare casini inutili, anche se nessuno – nemmeno dal governo – gli ha chiesto di ritirare l’invito a Rovelli per la fiera del libro di Francoforte. Non si sa mai che qualcuno glielo rinfacci un giorno o che questo possa compromettere relazioni che in futuro potrebbero tornare preziose e utili.
Più della censura, dunque, mi terrorizza l’autocensura. Perché quest’ultima può arrivare ovunque e da chiunque, vive nel silenzio felpato delle relazioni informali e non fa rumore perché non ha una tribuna dichiarata da cui scagliare anatemi.
Il potere comincia d’altra parte a far paura proprio quando c’è qualcuno che fa il lavoro sporco al posto suo. L’autocensura, dunque, consuma la democrazia e la riduce a regime. Attenzione, non stiamo parlando di quelli che arrestano gli oppositori, che limitano la divisione liberale dei poteri, che chiudono giornali, come la Turchia che oggi va al voto e speriamo si liberi del ventennio di Erdogan.
I regimi moderni sono quelli che nascondono i saperi critici o li ghettizzano in un angolino minoritario, fuori dai circuiti istituzionali della grande informazione. E, dunque, trasformano le opinioni differenti in parole quasi sovversive perché disturbano il principio dell’unanimismo su cui si reggono le ideologie fragili che oggi dominano il senso comune.
Il caso Rovelli non va minimizzato. Semplicemente perché non sappiamo se prima o dopo di lui ce ne sono stati o ce ne saranno altri.