A proposito della Risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre 2019 sull’importanza della memoria per il futuro dell’Europa, con l’equiparazione tra nazismo e comunismo, qualche considerazione, anche alla luce del dibattito che ne è seguito. Accento e lessico della Risoluzione richiamano il tramonto di epoche lontane piuttosto che l’alba di un nuovo millennio. Alcuni dei motivi contenuti nella Risoluzione meritano, tuttavia, di essere ripresi. Al punto 7 è espressa una condanna del “revisionismo storico” e una profonda preoccupazione “per la crescente accettazione di ideologie radicali e per il ritorno al fascismo, al razzismo, alla xenofobia e ad altre forme di intolleranza nell’Unione europea”. Viene deprecata la “collusione di leader politici, partiti politici e forze dell’ordine con movimenti radicali, razzisti e xenofobi di varia denominazione politica in alcuni Stati membri”. Abbastanza chiara l’allusione a forze politiche come la Lega di Salvini. Al punto 15 ci si rivolge direttamente alla Russia, invitandola “a confrontarsi con il suo tragico passato”. Nell’ultimo punto il testo incarica il suo Presidente di trasmettere la presente Risoluzione anche alla Duma russa. Della serie: parlare a nuora (le opinioni pubbliche europee) perché suocera intenda (Vladimir Putin).
Veniamo al tema posto dalla Risoluzione e cerchiamo di approfondirlo. Ora non c’è bisogno di ripetere qui, sul Blog di Articolo Uno, la più ferma e convinta condanna del nazismo, non solo in relazione al passato, anche agli attuali non irrilevanti pericoli. La storia non si ripete mai allo stesso modo, ma con varianti che possono essere non meno preoccupanti. Al contempo è bene evitare di cadere nella trappola di sottovalutare le gravi responsabilità dello stalinismo, per i delitti di cui si è macchiato, per dottrine aberranti come quella sul socialfascismo del 1928, con piena coscienza del fatto che sono state proprio le più libere e originali espressioni del movimento comunista a denunciarle, pagando un altissimo prezzo umano e politico.
Comunismo di stampo sovietico e nazismo condividono un dato storico, quello del partito unico che, nel Novecento, si è proposto una forma di integrale occupazione dello Stato. Con ciò dando vita ad un’identificazione a specchio che è stata definitatotalitarismo. Non solo da Hannah Arendt. Ancor prima da Simone Weil, che, riferendosi a Hitler, all’inizio degli anni Trenta, ha scritto: “Il regime da lui stabilito meritava già, per la prima volta in Europa dopo Roma, l’appellativo moderno di totalitario” (Simone Weil, Sulla Germania totalitaria, a cura di Giancarlo Gaeta, Milano, Adelphi, 1990, p. 204). E sull’URSS: “…su un sesto del globo, da quasi quindici anni, regna uno Stato oppressivo come qualsiasi altro e che non è né capitalista né operaio. Certo Marx non aveva previsto niente di simile. Ma neppure Marx ci è caro quanto la verità” (ivi, p. 170).
Il totalitarismo come regime illiberale di massa. Non senza una componente, tutt’altro che ininfluente, di consenso popolare. Il partito unico attore esclusivo sulla scena dello Stato. Dal Seicento al Novecento il mancato rispetto della distinzione dei poteri è stato detto assolutismo, racchiuso nella figura del sovrano. Poi l’affermarsi del principio di sovranità popolare, a partire da Rousseau, il diritto di espressione e il pluralismo hanno definito una condizione, nuova e diversa, che, con l’emergere della società di massa, ha portato alla nascita del partito moderno, non senza un fondamentale presupposto nella rivoluzione francese, quando, il 21 settembre 1792, in occasione della proclamazione della prima Repubblica, durante i lavori della Convenzione nazionale, a sinistra si pose la Montagna, a destra la Gironda, al centro la Pianura ovvero la Palude. Da allora ad oggi: sinistra, destra e/o palude.
La politica ha sempre accompagnato la storia dell’umanità. Ma il partito politico è un risultato, storicamente determinato, della modernità, o della tarda modernità, precisamente tra la seconda metà dell’Ottocento e gli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale. Nel corso dell’ultimo secolo si è potuto avvertire come questa entità, il partito politico, sia stato attraversato da un’incessante trasformazione, tuttora in atto, di cui è inutile sorprendersi. E’ nella sua natura,coessenziale alla società, di cui cerca, per quanto può, di interpretare attese e bisogni. Se no, prevale ciò che autori come Mosca, Michels e Pareto, non senza ostentazioni di Realpolitik, hanno intuito: la tendenza oligarchica, o, come si dice da circa un decennio in Italia, castale.
Vediamo qualche data. La prima Internazionale, con Marx e Bakunin, il 28 settembre 1864. Il Partito socialista italiano, primo vero partito in Italia, 14 agosto 1892. La seconda Internazionale, a guida socialdemocratica, il 14 luglio 1889. Il Partito popolare italiano, il 18 gennaio 1919. Il Partito comunista italiano, il 21 gennaio 1921, com’è noto, a seguito della scissione nel congresso di Livorno. Il Partito liberale italiano, l’8 ottobre 1921. Il Partito nazionale fascista, il 9 novembre 1921, sviluppo dei Fasci di combattimento del 23 marzo 1919. Il partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori, vale a dire il partito nazista, nasce a Monaco di Baviera, il 24 febbraio 1920, in piena Repubblica di Weimar, dalla cui crisi trae alimento, lungo gli anni Venti.
Però attenzione: ancora nel 1928, cinque anni prima dell’ascesa al potere di Hitler, la sinistra tedesca aveva la maggioranza. Quando il 30 gennaio 1933 il presidente della Repubblica von Hindenburg nomina Hitler cancelliere, la maggioranza dei tedeschi non è nazista, nelle elezioni del precedente mese di novembre il 63% degli elettori non aveva votato per Hitler. Ancora dopo la presa del potere da parte di Hitler, nelle elezioni del marzo 1933, quasi dodici milioni di voti non sono a favore del nazismo.Uno dei misteri politici, tuttora meritevoli di essere meglio indagato, è come sia stato possibile, anche a causa delle divisioni nella sinistra e nel fronte democratico, che quei dodici milioni di voti, si siano volatilizzati, a causa di una feroce repressione, ma non solo.
Comunismo e nazismo, ovviamente, hanno espresso visioni radicalmente contrapposte. Da un lato, il principio di eguaglianza, portato alle estreme conseguenze. Dall’altro, un’enfasi posta sul dominio del più forte, in una società esplicitamente fondata sulla discriminazione. Da un lato la speranza, presto disillusa, dell’“uomo nuovo”. Dall’altro l’abuso dell’idea di “superuomo”. Il partito-Stato, non accanto, sopra ogni aspetto della vita sociale, non senza un’opinione pubblica imbavagliata o al guinzaglio (circostanza non esclusa anche nella prassi delle democrazie liberali).
Sospesa l’idea di cittadinanza, lo Stato diventa dominus, soverchiante, prevaricante. Anche qui, tuttavia, con una radicale differenza. Il nazismo, come i fascismi variamente assortiti, sono fondati sulla figura di un dittatore, che arriva a sovrapporre la leadership alla carica istituzionale, nel caso del fascismo italiano non più presidente del consiglio dei ministri ma Duce, nel caso del nazismo tedesco non più cancelliere ma Führer. Nel comunismo di stampo sovietico, almeno nelle stagioni politiche successive a Stalin, il sistema ha sempre prevalso sulla figura del capo, per quanto dispotico. Basta ricordare il rapporto Kruscov del 25 febbraio 1956 con lapostuma demolizione della figura di Stalin e il contestuale avvio, tra luci e ombre,della cosiddetta destalinizzazione.
Nei fascismi non è andata così. Il totalitarismo fascista tende ad esaurire la sua parabola con il dittatore, in genere non gli sopravvive. Il fascismo come regime finisce con Benito Mussolini il 25 aprile 1945, l’esecuzione del dittatore il 28 aprile. Il nazismo, in una Germania in fiamme, arriva al capolinea con Hitler rinchiuso nel bunker di Berlino, che, opponendosi alla resa, abbandonando il Paese a se stesso,mette in scena il macabro teatro del proprio suicidio, il 30 aprile 1945, dopo avere, prima sposato, poi avvelenato Eva Braun, ordinando ai suoi sottoposti di bruciare i cadaveri. Mentre contestualmente Joseph Goebbels e sua moglie avvelenano i sei figli e ordinano ad un attendente delle SS di ucciderli. Anche il franchismo finisce con Francisco Franco in Spagna. Così come il regime di António de Oliveira Salazar in Portogallo.
Un merito dell’Unione Sovietica è di aver contribuito a sconfiggere il nazifascismo. Mai dimenticare che la Corte che processò i nazisti a Norimberga era composta da giudici e pubblici ministeri dei quattro paesi alleati vincitori della seconda guerra mondiale: Gran Bretagna, Stati Uniti, Francia e Unione Sovietica. Una graveresponsabilità dell’Unione Sovietica, d’altra parte, il patto Molotov-von Ribbentrop.Anche qui, però, attenzione. La firma intervenne solo dopo che tutti i tentativi di trovare un accordo con Gran Bretagna e Francia furono respinti o lasciati cadere. Contestualmente quel patto sancì il fallimento della politica di appeasement verso la Germania nazista da parte dei governi britannico e francese.
Per capire quanto sia stato disorientante, bisogna porsi dal punto di vista degli antifascisti europei, in Italia in carcere o al confino. Paolo Spriano ha scritto che esso suscitò “un indicibile sbalordimento” con “ripercussioni” “sullo schieramento antifascista” e sugli stessi “partiti comunisti”. Sul versante socialista, Pietro Nenni si dimise da segretario del PSI e non mancarono conseguenze dal punto di vista dell’unità della sinistra europea e italiana con nefaste conseguenze dal punto di vista della tonicità del fronte antifascista (cfr. Paolo Spriano, Storia del partito comunista. III. I fronti popolari, Stalin, la guerra, Torino, Einaudi, 1976, p. 310 ss.).
Da queste osservazioni si può comprendere come, per analizzare questi fenomeni,occorra non perdere di vista l’analiticità, il gioco delle distinzioni e non solo delle analogie, diversamente si rischia di finire nella notte hegeliana “nella quale tutte le vacche sono nere”. Di queste caratteristiche, purtroppo, non casualmente, è carente la Risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre scorso. Non è un limite di poco conto.