Caro Piero Grasso,
“riprendiamoci il diritto a fare politica”: questo l’incipit contenuto nella tua lettera-appello di oggi. E dunque il richiamo a non lasciar morire l’esperienza di LeU. Condivido. Per farlo, tuttavia, non possiamo fingere che il diritto a fare politica rimuova i problemi politici. Che sono tutti drammaticamente oggi sul tappeto. E che vanno affrontati con franchezza e sincerità.
Troppe volte in questi ultimi anni si sono costruiti partiti e movimenti politici sganciati dal contesto vivo del paese, appesi ai destini alterni di un leader, disomogenei nella cultura politica, esclusivamente nati per affrontare una competizione elettorale o per oltrepassare uno sbarramento percentuale.
Sono certo che non sia quello che vogliamo fare noi, sono certo che l’obiettivo che vogliamo perseguire è quello di costruire una sinistra che provi a scavalcare almeno un decennio e non semplicemente a soddisfare il bisogno immediato di una bandiera da piantare.
Un gruppo dirigente svolge una funzione positiva se aiuta la sua comunità a fare una discussione ordinata. Attorno agli assi politici decisivi, quelli che caratterizzano la natura di una forza politica. Altrimenti rischiamo di precipitare ancora una volta nell’esaltazione di un volontarismo che si trasforma rapidamente in impotenza. E tutto finisce in una contesa da pollaio. Io credo che tutti meritiamo di più.
1) Serve un giudizio sulla natura di questo governo e del ciclo politico che si è aperto. La crisi generata dalle politiche economiche della destra liberista viene raccolta e interpretata elettoralmente da una destra nazionalista e profondamente reazionaria. Insomma, chi ha provocato il disastro si candida a gestirne l’uscita politica e ottiene addirittura il consenso dei popoli. Dentro questo quadro, soccombono sia le sinistre riformiste che hanno rinunciato a una critica moderna al capitalismo finanziario che le sinistre radicali che hanno faticato a trasformare le intuizioni di questi anni in proposte di governo concretamente realizzabili. Torna dunque una “questione socialista” nel nostro paese e in Europa. Questa parola riprende quota nei paesi anglosassoni di entrambe le sponde dell’Atlantico, attraversa università, riviste culturali e centri di ricerca e carsicamente riemerge anche nei luoghi tradizionali dell’agire politico. Persino in partiti che l’avevano accantonata in nome di terze vie fallimentari. Bisogna farci i conti. Costruire l’ennesimo progetto sradicato dalla tradizione profonda che ha attraversato un secolo e mezzo di storia del movimento operaio sarebbe un errore grave. Di “oltrismo” si muore.
2) Credo che un dibattito sulla qualità dell’opposizione al governo gialloverde non possa uscire dall’agenda del nostro percorso costituente. Quali sono gli attori che vogliamo coinvolgere in questo sforzo? Siamo certi che bastano le nostre parole d’ordine per renderci autosufficienti? Non sono per lasciare a Renzi la parola resistenza, ma occorre capire con quali soggetti sociali la costruiamo. Il mondo del lavoro frantumato, disperso, umiliato deve essere il principale interlocutore della nostra azione politica. Se separiamo la giustissima offensiva sui valori calpestati dalla deriva xenofoba di Salvini dalla questione sociale andiamo poco lontano. A partire dalla Legge di Bilancio che verrà. Non bisogna affidare allo spread o ai mercati l’opposizione allo smemorato Di Maio che si affaccia dal balcone, ma non possiamo nemmeno parlare con cinquanta voci. Premesso che per noi i parametri sul deficit non saranno mai un tabù, la sintesi tra reddito di cittadinanza, condono fiscale e flat tax lascerà in piedi una società ancora più diseguale. Un po’ di soldi – e nemmeno quelli promessi – ai più poveri per non rompere le scatole e un maxisconto fiscale ai milionari che sentitamente ringrazieranno. Dall’orizzonte scompaiono i bisogni del mondo del lavoro. Serve invece rilanciare con forza il Piano Verde del lavoro che avevamo proposto in campagna elettorale. Se la sinistra balbetta di fronte a questa impostazione può anche saltare un giro. Nessuno la rimpiangerà.
3) Un soggetto esiste se è radicato sul territorio e nei conflitti. Deve essere indubbiamente un’agenzia di senso, deve stare nella battaglia dei social (noi ci stiamo poco e male), deve avere gli strumenti per raggiungere persino chi non si può muovere da casa attraverso una piattaforma digitale, ma deve avere i piedi piantati sul terreno di gioco. In Italia di partiti virtuali ce ne sono già troppi. E forse se analizziamo con lucidità il nostro dato elettorale del 4 marzo scopriamo che quel milione e centomila voti scaturisce soprattutto da una militanza strutturata e larga. La nostra ricchezza principale da curare e preservare. Il lungo ciclo degli ultimi 25 anni post tangentopoli ci ha consegnato partiti azienda, televisivi o telematici, partiti pigliatutto, partiti carismatici. Continuo a pensare che un soggetto della sinistra debba puntare sul radicamento diffuso, sulla presenza territoriale, sulla capacità di fare società. Se c’è un dissenso tra di noi su questo punto va fatto emergere. I luoghi fisici devono pesare almeno quanto quelli virtuali, il tesseramento deve tornare a essere una forma di proselitismo capillare. Se ci sono degenerazioni vanno combattute, ma è uno strumento che non può essere demonizzato. Bisogna dire alla nostra gente che potrà decidere nelle sedi dove sarà chiamata a partecipare. Come non fa purtroppo più da anni. La nostra è una comunità di persone vive, che ha bisogno di guardarsi in faccia, di discutere, di litigare e di scegliere insieme. Non ci serve un fortino monolitico che ha paura del pluralismo. A noi serve finalmente liberare un po’ di democrazia.
4) Non ho mai pensato che un partito nasca in funzione dell’alleanza che farà con quello più vicino. Prima o poi finisce per esserne soltanto una corrente esterna. Non è questa la nostra ambizione. La politica delle alleanze fa parte tuttavia della cultura politica profonda della sinistra italiana. Ed è un bagaglio della nostra storia che non può essere mai smarrito. Ce lo hanno insegnato da bambini. Una forza che nella sua autonomia non pratica l’autosufficienza, che prova ad aprire contraddizioni tra i blocchi politici e sociali esistenti, che costruisce un progetto di paese – se si determinano le condizioni storiche – insieme ad altri, diversi da lui. Un partito che prova a stare nel fuoco della temperie politica. Non so a chi tu ti riferisca quando parli di quei dirigenti che si limitano a commentare il congresso del Pd. Appuntamento che non mi riguarda, perché non ho intenzione di parteciparvi, ma che mi interessa perché continuo ancora a coltivare il brutto vizio del fare politica. E quando tutti insieme chiediamo discontinuità nelle scelte programmatiche ci rivolgiamo innanzitutto a quel partito e a quell’elettorato. E se quel soggetto cambia – cosa che non vedo al momento all’orizzonte – non sarà un fatto neutrale per lo stesso destino della democrazia italiana. Non vorrei che la scelta di non commentare gli orientamenti del Pd si trasformi invece nell’opzione di affidarsi a un silenzio stampa permanente. Scelta che abbiamo praticato anche troppo in questi ultimi mesi.
5) Sarà il nuovo gruppo dirigente di Leu a scegliere come confrontarsi con importanti appuntamenti elettorali in agenda: le europee e le elezioni amministrative. Mi soffermo sulle prime. Saranno un punto di snodo del destino dell’Unione politica che abbiamo conosciuto in questi anni. Non c’è dubbio che ci troviamo di fronte a una riarticolazione delle famiglie in campo. Nessuna uscirà dalle elezioni del 26 maggio 2019 come era prima. A partire dalla sinistra nelle sue varie sfumature. E io credo che la faglia in mezzo a noi non sia tra chi è più socialista o più radicale, ma tra chi crede ancora che questa Europa sia radicalmente riformabile – io tra questi – e chi pensa che il ritorno alla dimensione nazionale sia uno sbocco possibile – se non auspicabile – della crisi dell’eurozona. Il confronto dobbiamo farlo su questi nodi, non sulle caricature. Il socialismo europeo è indubbiamente un campo in crisi, ma dentro di sé si ritrovano ancora energie positive che governano da sinistra alcuni paesi della fascia eurmediterranea. Un anno fa in Parlamento Europeo per la prima volta dopo quindici anni tutta la sinistra, finalmente unita, rompe la grande coalizione con i popolari. Sarei per evitare giudizi troppo perentori e semplificati. Una forza come la nostra cresce se è plurale e se ha l’ambizione di costruire anche a livello sovranazionale una sintesi originale tra filoni culturali diversi. Per me LeU deve essere autonomamente in campo alle elezioni europee innanzitutto per questo motivo. D’altra parte un partito politico che nasce non puo’ immediatamente diluirsi in un cartello, l’ennesimo, elettorale. Abbiamo già dato. Ovviamente la lista di LeU alle europee dovrà essere aperta, civica, inclusiva, una lista di scopo per cambiare l’Europa. Ma continuare a sperimentare ad ogni passaggio elettorale nuovi simboli e nuove sigle significa accantonare il progetto politico che abbiamo lanciato il 3 dicembre a Roma. Chi lo considera esaurito lo dica chiaramente. E lasci a chi vuole provarci la possibilità di farlo.
Caro Piero, queste alcune delle mie considerazioni sull’impasse di LeU. Oggi non è il tempo delle tifoserie, ma del confronto anche aspro tra posizioni diverse. Il coraggio di chi dirige sta nella capacità di provare a leggere le ragioni degli altri, di far vivere le differenze per costruire sintesi vere, all’altezza della fase drammatica che viviamo.
Con stima, Arturo Scotto