Oggi l’INAIL ci dice che le denunce di infezioni sul lavoro da nuovo coronavirus sono 104.328. Il picco negli ultimi due mesi. I sanitari, infermieri la maggior parte, medici, operatori socio-sanitari e socio-assistenziali, ausiliari, portantini e barellieri costituiscono circa il 39% delle denunce, con un tasso di mortalità del 23.7%.
Un tributo enorme alla lotta contro il virus. Pagato da categorie di lavoratori per anni indicati come “fannulloni”, “fonte di spreco”, espressione della “bestia pubblica che divora risorse” e oggetto di tagli selvaggi (37 miliardi, secondo GIMBE con oltre 40.000 unità di personale in meno negli ultimi 10 anni).
Ad ognuno e ognuna delle centinaia di migliaia di lavoratori della sanità e dell’assistenza, dagli ospedali alle CRA, non piace essere definiti eroi, come usa fare con eccessiva disinvoltura nel nostro Paese per ogni lavoratore che svolge con dedizione e disciplina il proprio lavoro ma non c’è dubbio che siamo dinanzi a una prova, a un tributo di grande portata morale e civile.
Chi ha vissuto e lavora dagli ospedali alle CRA non ha visto un fuggi fuggi con l’arrivo della epidemia ma, al contrario, ha visto colleghi e colleghe rinunciare alle ferie, ai riposi, fermarsi oltre l’orario di lavoro spinti dalla consapevolezza che stavano affrontando, per conto della gente della quale hanno giurato di prendersi cura, una lotta decisiva, per la salute e per la vita economica e sociale del Paese.
Lo hanno fatto con naturalezza e spontaneità, non si sono lasciati condizionare dal ricordo della retorica di chi, negli anni passati, chiedeva tagli e risparmi su un comparto, la salute, in cui già si spendeva molto meno che in altri Paesi e, nonostante ciò, si garantivano cure e assistenza, “dal medico di medicina generale al trapianto di cuore”, senza chiedere a nessuno il numero di carta di credito.
Il sentimento di essere parte di una impresa epocale ha animato, specie nella prima fase, senza DPI, “a mani nude”, uno sforzo individuale e collettivo, in deroga a fatica e contratti, senza precedenti.
Hanno contratto il virus, hanno sofferto, sono morti ma non si sono fermati.
Lo hanno fatto, arrabbiati ma quasi silenti, anche quando degli sconsiderati parlavano di “discoteche da aprire”, di “dittatura sanitaria”, di “complotti giudo-plutaico-massonici”.
A questa categoria di lavoratori pubblici, di civil servant, dobbiamo molto. A queste donne e questi uomini che per mesi sono stati lontani dai loro anziani genitori, dai loro figli per paura di contagiarli il Paese deve molto.
In tanti, dopo la sbornia neo-liberista dei tagli giustificati con la reiterata stucchevole e insopportabile vicenda del “diverso costo delle siringhe che riportato al mercato vero avrebbe consentito il risparmio di un 30% del fondo sanitario nazionale”, in questi mesi hanno riscoperto quanto sia strategico e importante, non solo per la salute ma anche per l’economia, avere un Servizio Sanitario Nazionale pubblico e universale, moderno e popolato da operatori con una età media più giovane, di cui proprio ieri abbiamo celebrato l’anniversario della nascita, il 23 dicembre 1978.
Noi non avevamo dubbi neanche prima, noi che conosciamo i diversi modelli sanitari nel mondo, non abbiamo mai dubitato del fatto che solo il pubblico, solo lo Stato può garantire cure e assistenza sicura e di qualità (efficacia) a tutte e tutti a costi contenuti (efficienza). Infermieri, medici e operatori sanitari in genere, pagati mediamente il 30% di altri Paesi europei comparabili, che stringono i denti, rischiano, si infettano (e spesso muoiono) ma continuano a lavorare, continuano a condividere la sorte dei loro pazienti.
A epidemia risolta, questo paese non dimentichi. Non dimentichi neanche la cacofonia istituzionale generata da una interpretazione egoistica del Titolo V che continua a generare disuguaglianze territoriali inaccettabili.
Un tributo enorme alla lotta contro il virus. Pagato da categorie di lavoratori per anni indicati come “fannulloni”, “fonte di spreco”, espressione della “bestia pubblica che divora risorse” e oggetto di tagli selvaggi (37 miliardi, secondo GIMBE con oltre 40.000 unità di personale in meno negli ultimi 10 anni).
Ad ognuno e ognuna delle centinaia di migliaia di lavoratori della sanità e dell’assistenza, dagli ospedali alle CRA, non piace essere definiti eroi, come usa fare con eccessiva disinvoltura nel nostro Paese per ogni lavoratore che svolge con dedizione e disciplina il proprio lavoro ma non c’è dubbio che siamo dinanzi a una prova, a un tributo di grande portata morale e civile.
Chi ha vissuto e lavora dagli ospedali alle CRA non ha visto un fuggi fuggi con l’arrivo della epidemia ma, al contrario, ha visto colleghi e colleghe rinunciare alle ferie, ai riposi, fermarsi oltre l’orario di lavoro spinti dalla consapevolezza che stavano affrontando, per conto della gente della quale hanno giurato di prendersi cura, una lotta decisiva, per la salute e per la vita economica e sociale del Paese.
Lo hanno fatto con naturalezza e spontaneità, non si sono lasciati condizionare dal ricordo della retorica di chi, negli anni passati, chiedeva tagli e risparmi su un comparto, la salute, in cui già si spendeva molto meno che in altri Paesi e, nonostante ciò, si garantivano cure e assistenza, “dal medico di medicina generale al trapianto di cuore”, senza chiedere a nessuno il numero di carta di credito.
Il sentimento di essere parte di una impresa epocale ha animato, specie nella prima fase, senza DPI, “a mani nude”, uno sforzo individuale e collettivo, in deroga a fatica e contratti, senza precedenti.
Hanno contratto il virus, hanno sofferto, sono morti ma non si sono fermati.
Lo hanno fatto, arrabbiati ma quasi silenti, anche quando degli sconsiderati parlavano di “discoteche da aprire”, di “dittatura sanitaria”, di “complotti giudo-plutaico-massonici”.
A questa categoria di lavoratori pubblici, di civil servant, dobbiamo molto. A queste donne e questi uomini che per mesi sono stati lontani dai loro anziani genitori, dai loro figli per paura di contagiarli il Paese deve molto.
In tanti, dopo la sbornia neo-liberista dei tagli giustificati con la reiterata stucchevole e insopportabile vicenda del “diverso costo delle siringhe che riportato al mercato vero avrebbe consentito il risparmio di un 30% del fondo sanitario nazionale”, in questi mesi hanno riscoperto quanto sia strategico e importante, non solo per la salute ma anche per l’economia, avere un Servizio Sanitario Nazionale pubblico e universale, moderno e popolato da operatori con una età media più giovane, di cui proprio ieri abbiamo celebrato l’anniversario della nascita, il 23 dicembre 1978.
Noi non avevamo dubbi neanche prima, noi che conosciamo i diversi modelli sanitari nel mondo, non abbiamo mai dubitato del fatto che solo il pubblico, solo lo Stato può garantire cure e assistenza sicura e di qualità (efficacia) a tutte e tutti a costi contenuti (efficienza). Infermieri, medici e operatori sanitari in genere, pagati mediamente il 30% di altri Paesi europei comparabili, che stringono i denti, rischiano, si infettano (e spesso muoiono) ma continuano a lavorare, continuano a condividere la sorte dei loro pazienti.
A epidemia risolta, questo paese non dimentichi. Non dimentichi neanche la cacofonia istituzionale generata da una interpretazione egoistica del Titolo V che continua a generare disuguaglianze territoriali inaccettabili.
A medici, infermieri, tecnici, OSS, OSA eccetera, a tutto il personale della sanità pubblica, l’augurio di Buone Feste e di un Nuovo Anno migliore. Perché se sarà migliore sarà anche per il loro lavoro, per il loro sacrificio, per il loro tributo.