Nelle urne del 4 marzo, il M5S ha ottenuto il 32,7%, la Lega il 17,4%. Senonché i sondaggi successivi tendono ad attribuire alla Lega una crescita; sino all’ultimo, in ordine di tempo, illustrato, su La7 da Enrico Mentana, non più tardi di lunedì 23 luglio: Lega al 30,7%, M5s al 29,3%. Un 60% tondo. Con sorpasso. La Lega tra due forni, M5s e centrodestra, da entrambi i quali può trarre un beneficio, cannibalizzando sia il bacino elettorale più di destra del M5s, sia attingendo a quel che rimane del vecchio centrodestra, quest’ultimo partecipe, tuttavia, della governance allargata, come sembra evidenziare l’attribuzione della presidenza della Commissione parlamentare di vigilanza sui servizi radiotelevisivi a un esponente di Forza Italia.
Le formazioni della sinistra e del centrosinistra, tutte comprese, sono poco sopra il 20%. Un quinto del bacino elettorale. E’ difficile continuare a parlare di tripolarismo con unaterza forza che vale non un terzo, ma un quinto. Al momento il tripolarismo appare piuttosto bipolarizzato, con entrambi i poli maggiori al governo. Non solo per realismo, con questi dati forse è il caso di confrontarsi. Nonostante i toni sprezzanti, ovvero una qualità complessivamente non degna di nota, a cui, peraltro, il Paese si era abituato già nella precedente legislatura, bisogna prendere atto del fatto che questo governo gode di una certa popolarità nel Paese, in modo trasversale, anche in settori che appartengono ad aree di sensibilità politico-culturale che vanno oltre il perimetro giallo-verde. Come ha scritto Pier Luigi Bersani, citando Altan, anche “nella testa di tante persone di sinistra sono entrati pensieri che non condividono. E non se ne vanno facilmente, quei pensieri. Rimangono” (Facce e idee nuove, solo così la sinistra si rimette in moto, su “Repubblica” del 3 luglio).
A quello che è stato detto, non senza eccessi retorici, il primo partito, il più grande partito, l’ultimo partito, qualcosa, nella lettura della società italiana e delle sue dinamiche, negli ultimi anni evidentemente è sfuggito e, stando al dibattito interno, purtroppo in gran parte continua a sfuggire. Anche se qualcuno l’onda di piena della revanche, motivata dall’accentuarsi delle diseguaglianze, tra rottura delle relazioni sociali e incanaglimento del rapporto tra cittadini e istituzioni, l’aveva intravista. Articolo Uno – Mdp prima, Liberi e uguali poi.
Prendiamo la faglia che più di altre definisce, in questa fase, scelte e valori. L’immigrazione. Certo, regolare i flussi. Certo, compatibilità tra accoglienza e integrazione. Certo, una tangibile solidarietà europea. Certo, un’integrazione credibile e non ragazzi per strada affidati alla sussidiarietà, sotto forma di carità, quando quella dell’immigrazione è una “potestà esclusiva” dello Stato (articolo 117, comma b, subito dopo la politica estera). Certo, un po’ più di rispetto per le paure, giustificate o meno, di tanti cittadini, dal punto di vista della percezione del fenomeno. Ma se questo deve significare che, in nome e per conto degli italiani, si abbassi sino a questo punto la soglia dell’umano sentire, ovvero la capacità di impostare soluzioni eticamente sostenibili, allora è necessario un supplemento di riflessione. Una politica senza scrupoli che prende gli sventurati di turno come ostaggio per alzare il prezzo della negoziazione con Bruxelles può avere efficacia sul piano degli spot, fa molta più di fatica a delinerasi come una strategia.
Ma non c’è solo un popolo ripiegato sulla chiusura sovranista. C’è un altro accento dell’identità italiana, sulla quale si fonda l’idea di una comunità nazionale non disgiunta dallo stesso progetto europeo. Un patriottismo non del suolo o del sangue o del colore della pelle: ma costituzionale, fondato sul bilanciamento dei diritti e dei doveri.
Forse qualcuno ricorda l’emergenza che si ebbe all’inizio degli anni Novanta, dopo il crollo del Muro di Berlino, con l’Albania. Poi i rapporti sono andati intensificandosi, in termini sociali ed economici, con investimenti, non solo pubblici, anche da parte del sistema imprenditoriale e artigianale. Un Paese civile pensa ai propri confini, all’alba del terzo millennio, soprattutto così. E in questo modo, l’Italia, avrebbe dovuto condursi, con la Libia, dalla caduta di Gheddafi in avanti; e, a maggior ragione, dovrebbe farlo oggi. Accompagnando un processo di ricomposizione politico-istituzionale della frammentazione tribale, per ricostituire un’entità statuale legittima, impostata sulla dignità della persona, capace di garantire che in Libia non prevalgano, come tuttora accade, i mercanti di esseri umani.
Sia Albania che Libia sono ai nostri confini. In entrambi i casi ereditiamo relazioni indotte da un’epoca tramontata, “coloniale” o “imperiale”, per quanto, per motivi diversi, farlocche. La conquista della Libia ai danni dell’impero turco, sotto la pressione di una martellante campagna nazionalistica, tra il settembre 1911 e l’ottobre 1912, sino a scuotere gli equilibri del sistema giolittiano a favore di un radicalismo di destra che avrebbe preparato il terreno al fascismo. L’occupazione del piccolo regno d’Albania da parte del fascismo, nell’aprile 1939, nell’emulazione gregaria della Germania hitleriana. Due fatti temporalmente collocati alla vigilia dell’esplosione delle guerre mondiali.
Anche per questi motivi, in parte storici, in parte geografici, inerenti alla visione dello sviluppo di politiche di pace e di cooperazione, l’Italia ha una responsabilità decisiva verso questi Paesi. E non è un problema che si risolve limitandosi a invocare l’intervento dell’Europa; siccome esso è costitutivamente parte del profilo della politica estera dell’Italia proprio in relazione al suo rango di Paese fondatore del progetto europeo. E’ qui, al di là dei pure fondamentali aspetti umanitari, che il sovranismo dimostra di non essere all’altezza. L’immigrazione non si affronta col cinismo protervo e rozzo, unito alla non poca insipienza oggi al governo del Paese: ma sul piano delle politiche che è in grado di mettere in campo un grande Paese come l’Italia al centro del Mediterraneo.
Una sinistra che non voglia limitarsi a far da spettatrice, senza isterie, con spirito critico, deve incalzare questo governo nel merito, sapendo distinguere la concezione autoritaria sulla sicurezza, interna e internazionale, da eventuali provvedimenti che segnino un cambio di registro in ambito sociale. Tenendo conto di tre parole-chiave. Discontinuità. Autonomia. Alternativa. C’è un campo di forze, fondato sui valori costituzionali, che può condividere l’attesa di un’inversione di tendenza, al contempo, da adesso e da prima. Come dimostra la copertina di “Famiglia Cristiana”. A dispetto dei sepolcri imbiancati che gridano allo scandalo. In fondo Mefistofele nel Faust di Goethe, non è lo spirito che nega, che dice di no, che dice di no alla vita?
Autonomia, ancora, senza subalternità verso nessuno, senza autosufficienze, perché sinistra è un orizzonte aperto e plurale. Infine, alternativa; c’è un cammino, non semplice, non breve, non frutto di battute accattivanti ma di pensieri lunghi, nel quale il rapporto con la società in trasformazione è la vera chiave di volta di ogni possibile progetto di cambiamento. Questioni che meritano riflessione e azione, cultura politica e iniziativa, discussione e partecipazione – e che riguardano Liberi e uguali, ma non solo.