La sovranità nazionale, spiega il secondo comma dell’articolo uno della Costituzione – vale a dire la nostra carta di identità – “appartitene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. La radicale differenza tra noi e ogni sovranismo è tutta in queste ultime decisive parole.
Non credo che il centrosinistra, pur segnato da problemi ed errori, nel passato, come qualcuno dice, sia stato solo liberismo e subalternità alla globalizzazione. Non è un racconto corretto. Quella tendenza, se vi è stata, si è sempre confrontata con un’altra pienamente cosciente della crisi, dell’esigenza di superarla, sviluppando i diritti sociali oltre a quelli civili.
Bisogna riprendere il rovello per la ricerca, la sperimentazione, l’innovazione, dal punto di vista di una sinistra popolare e di governo. Facendo sinistra con i mondi sociali che chiedono più protezione; lavoro, sanità, scuola, giovani, in particolare i Neet, due volte disoccupati, senza studio e senza lavoro, di cui vantiamo un triste primato negativo in Europa.
E poi: beni comuni, etica pubblica, terzo settore, corpi intermedi, a partire dalle organizzazioni sindacali. Le cito al plurale. L’unità delle forze sindacali fondamentale per una ripartenza, non solo per la politica, per il Paese, come si è visto nella grande manifestazione a Roma di Cgil Cisl e Uil del 9 febbraio scorso.
Riannodando il filo di una connessione sentimentale con chi vive i problemi, dal basso, dal territorio, dalle periferie, dalle parti più dimenticate e invisibili della società. C’è una comunità, accanto a quella che conosciamo, di persone che non ce la fanno, c’è una sussidiarietà sociale che se ne occupa, non sempre con il conforto delle istituzioni.
Abbiamo bisogno di dotarci di forme nuove di partecipazione, discussione, riflessione, per una soggettività unita all’idea di una comunità orizzontale, nel segno di quel volontariato politico che abbiamo condiviso in questi ultimi due anni da quando abbiamo dato vita ad Articolo Uno.
Abbiamo bisogno di un chiaro punto di vista. Consapevoli del nostro compito: portare quel che siamo in qualcosa di più grande. Senza finire nell’indistinto. Rimanendo autonomi. Autonomi e aperti. Non autosufficienti. Non una sinistra che si limita a contemplare i propri limiti. Una sinistra che abbia l’aspirazione di oltrepassarli. Piedi per terra, testa nel mondo.
In vista delle Europee il nostro riferimento, anche se in modo critico, non può non essere la famiglia del socialismo europeo. Lasciando da parte, come direbbe Habermas, l’europeismo della domenica, quello della retorica, affrontando un europeismo dei giorni feriali, del lavoro, della questione sociale, della questione democratica, per politiche orientate a rendere concreta la sfida dell’integrazione. Senza buonismi, con rispetto di ogni persona. Facciamo bene a ribadire, con convinzione, avendolo, diversamente da altri, sempre coerentemente detto, la civiltà dello Ius Soli.
Noi siamo quelli che hanno determinato, per primi, un’inversione di tendenza. Per una ragione politica di fondo. Per tanti di noi era inaccettabile vedere che, nel centrosinistra, con sin troppa disinvoltura, si passasse, senza vaglio elettorale, dalla coalizione Italia bene comune a un accordo di potere con Alfano e Verdini, contro la sinistra di governo.
Ha agito una specie di vocazione dialettica: rompere per determinare un terreno diverso, più alto, di incontro, per una unità non subita, frutto di una scelta, per una sintesi non al ribasso, subalterna, ma esigente, al servizio della nostra gente e del Paese.
Oggi occorre operare su due terreni: da un lato custodendo ciò che abbiamo sin qui faticosamente creato; sarebbe un delitto disperderlo; ringraziando chi ha dato e dà, generosamente, il suo contributo; dall’altro promuovendo uno schieramento più ampio, per offrire all’Italia un’alternativa all’attuale maggioranza giallo-verde, la quale, se cadrà, cadrà per le proprie interne contraddizioni, oltre che su conti pubblici tutt’altro che in sicurezza; ma, senza un’alternativa, il Paese rischia di rimanere impantanato nella palude, attuale, dei risentimenti e delle paure.
Senza un’alternativa credibile non può esserci neppure la speranza di un cambiamento. A questo dobbiamo lavorare. Nei prossimi appuntamenti amministrativi, europei, regionali, dopo i passaggi incoraggianti in Abruzzo, in Sardegna, da ultimo in Basilicata.
Per questo non dobbiamo stancarci di proporre discontinuità. Non basta un po’ di manutenzione o di restyling. Nessun rassemblement delle élite contro i reprobi populisti. Piuttosto, se ci sono le condizioni, un rinnovato spirito di coalizione che unisca politica e società, per una proposta di governo ben radicata nel sentimento popolare, prossima ai problemi della gente. Laddove questo si dà, alleanza. Laddove non si dà, occorre il coraggio di portare il nostro punto di vista, senza timori.
Ma non illudiamoci: non so quanto questo sia il tempo del raccolto, o non, piuttosto, quello, paziente e lungimirante, della semina.
Il fatto che l’Emilia-Romagna si ritrovi con Lombardia e Veneto, pur in forme diverse, a rivendicare un’autonomia differenziata, è sorprendente. Una gaffe o un autogol; imbarazzante, oltre che sbagliato. L’Emilia-Romagna oggettivamente al fianco delle due regioni a più forte traino leghista, nel chiedere al governo gialloverde l’autonomia differenziata, diversa, dicono, da Veneto e Lombardia, sicuramente diversa dalla tradizione di coesione sociale, regionalismo ben collocato nella cornice dell’unità nazionale, che è stata, che continua ad essere tipica della cultura politica della nostra terra.
Noi siamo per l’autonomia, a partire dall’articolo 5, prima parte, della Costituzione; ma questo non significa accettare di portare acqua al mulino disegni poco chiari di disarticolazione della Repubblica, contribuendo a manomettere di fatto il valore dell’articolo 3, quello dell’eguaglianza sostanziale.
Un’ultima cosa: LeU è andata come è andata, corretto prenderne atto, specie da parte di chi ha guardato al processo non senza una preventiva disillusione.
E’ finito il tempo di Aspettando Godot. Non si tratta di tornare indietro, a un prima, ma di avere lo sguardo orientato verso l’orizzonte che è davanti a noi.
Non ci servono cose troppo complicate. Organismi democratici, con un tangibile ruolo di direzione politica da parte di giovani e donne, una cultura politica di sinistra popolare e di governo, socialista ed ecologista, per una lotta alla diseguaglianza non solo in termini caritatevoli ma strutturali, assumendo la questione ambientale in tutta la sua trasversalità.
Sul tema della sostenibilità la logica emergenziale è una contraddizione in termini, sono già state poste utili premesse da parte di organismi sovranazionali.
Già nel 2010 l’Unione Europea ha promosso la Strategia Europa 2020 con la formula 20-20-20: meno 20% di emissioni di gas serra; più 20% di efficientamento energetico; più 20% di fonti rinnovabili. Al 2020 manca un anno; c’è da chiedersi cosa sia stato fatto. Già nel 2015 l’Onu ha promosso l’Agenda 2030, coinvolgendo 193 Paese, 17 obiettivi strategici, al centro il contrasto ai cambiamenti climatici. Non c’è editoriale di giornali o Tg, talk show o tweet, che ne parli, ovviamente.
Spero che questo passaggio verso l’appuntamento dell’assemblea congressuale nazionale di Articolo Uno, proprio a Bologna – senza nessun auto-compiacimento verso modelli che non ci sono più da tempo – aiuti noi tutti a trovare la forza di un nuovo slancio.
Come spiega una regola scout, non tutto, ma almeno qualcosa dipende da ciascuno di noi, dal nostro equipaggiamento. Cerchiamo di viaggiare leggeri, non cadiamo negli autoinganni organizzativi. Stiamo alla politica. A ciò che serve, prima di tutto, per questo Paese. Attrezziamoci, dotiamoci di un assetto adeguato, per rinnovare le ragioni di una comunità solidale al proprio interno, pronta per le battaglie che dovremo affrontare, in un cammino che non sarà né semplice né breve.