Il conflitto russo-ucraino può deflagrare da un momento all’altro. Si va dritti verso un’escalation pericolosissima che rischia di scatenare un imprevedibile scontro armato alla frontiera dell’Europa. Le esercitazioni militari russe alla frontiera ucraina provocano a loro volta la reazione statunitense che potrebbe ammassare truppe lungo i confini, predisponendosi a inviare almeno altri cinquemila soldati lungo la fascia baltica. Allo stesso tempo, il personale diplomatico degli Usa e quello della Gran Bretagna vengono fatti rientrare a scopo cautelativo.
Insomma, se non è un annuncio di guerra siamo comunque ben oltre una semplice la strategia della deterrenza. Ulteriori sanzioni verranno comminate a Putin, che andranno ad aggiungersi a quelle già esistenti, che non pochi danni hanno fatto al potere d’acquisto della popolazione russa, senza però scalfire la tenuta di un regime politico profondamente a-democratico.
L’Europa mantiene il proprio corpo diplomatico in Ucraina, scegliendo di non seguire per il momento l’asse angloamericano, ma fa fatica a individuare un orizzonte comune, uno scatto diplomatico che riesca a preservare gli accordi di Minsk. La Germania prosegue al momento l’ostpolitik della Merkel, Macron parla poco dopo aver dichiarato la morte celebrale della Nato, l’Italia praticamente non pervenuta, forse perché tutte le energie di chi dovrebbe occuparsene sono proiettate sulla scena del Quirinale.
Tutti gli sforzi sembrano al di sotto del necessario, quasi una rimozione della totale assurdità di una guerra alle porte del nostro continente. Qualcosa di indicibile, che trasmette smarrimento e incredulità, compresa la distanza dell’opinione pubblica da una crisi che appare lontana e incomprensibile, generata dal conflitto tra due principi entrambi difficili da sciogliere: l’autodeterminazione dell’Ucraina da un lato, la sicurezza della Russia dall’altro.
Eppure dopo 30 anni dalla fine dell’Urss – definito da Putin “il più grande disastro geopolitico della storia contemporanea” – un’analisi un po’ meno approssimativa sui rapporti tra occidente e federazione russa andrebbe fatta. La stessa cintura atlantista – parola tanto abusata quanto svuotata – non riesce a spiegare da sola l’innumerevole quantità di sfumature emotive che emergono oggi: la storia pesa molto.
Dopo il decennio del grande caos post-91, con il disfacimento del vecchio impero sovietico, l’esplosione di diseguaglianze sociali gigantesche, la crescita a dismisura di oligarchie, mafie e corruzione, Putin ha rappresentato un fattore oggettivo di stabilizzazione nonché un’argine alla disgregazione di una nazione tecnicamente fallita che ha circa trenta milioni di cittadini di etnia russa – i cosiddetti “piedi rossi” – fuori confine. Una diaspora che non ha paragoni in nessun quadrante geografico e che ovviamente rappresenta un incentivo potente per il ripiegamento nazionalista che ha sempre avuto un peso forte in quel paese, anche rispetto alla vicina Ucraina, le cui radici sono sempre state ritenute, a partire dal fattore religioso, pienamente dentro la grande arca russa.
La fine del bipolarismo del terrore ha sguarnito i confini dell’ex Urss, la Russia attuale è sprovvista di barriere naturali che la separano da un’Europa che rischia di essere vissuta esclusivamente come una proiezione politica della Nato. D’altra parte, sono 10 i paesi dell’ex Patto di Varsavia transitati nella Nato e nell’Unione Europea, basi militari comprese. Aggiungerne un undicesimo a 650 km da Mosca viene vissuto come una provocazione. Dunque, il rischio dell’incidente che può portare tutti al punto di non ritorno è sempre dietro l’angolo.
È lo squilibrio che determina l’instabilità, che tiene a galla il regime ventennale di Putin nel confronto con il resto del mondo, che rende attualmente indispensabili i rapporti con la Russia sul piano energetico, essendo l’Europa dipendente dal gas moscovita al netto di transizioni ecologiche ancora da avviare e completare. E questo stato di necessità in ogni caso offre ai russi una leva decisiva nei rapporti di forza con l’Unione, che nessun soccorso a stelle e strisce purtroppo può garantire.
Persino l’eventuale ricorso a riserve di gas esterne – paesi del Golfo in primis – appare un pannicello caldo davanti all’entità dei rincari energetici che si determineranno. Senza dimenticare che Putin è un partner a corrente alternata – talvolta ostile, talvolta non sostituibile – su tanti teatri del Mediterraneo, a partire dall’intricatissimo mosaico libico dove ha messo più di un piede dopo la deposizione di Gheddafi.
L’allargamento del solco tra Occidente e Russia non fa altro che spingere gli interessi di Mosca verso Pechino, nonostante diffidenze storiche e divergenze strategiche tra le due potenze. Lo dimostrano l’incremento di interessi commerciali ed energetici, oltre che una ritrovata sintonia militare fino a dieci anni fa tutt’altro che scontata.
Le democrazie sembrano lavorare contro se stesse, alimentando saldature che possono generare nuovi scenari caotici e incerti, incapaci di immaginare un nuovo equilibrio multilaterale che resta l’unica chiave possibile in un mondo sempre più interdipendente sul piano economico, ambientale, tecnologico.
D’altra parte, a chi giova in Europa una prolungata guerra fredda con la Russia, in una fase in cui i rincari energetici rischiano di mettere in ginocchio la già troppo lieve ripresa economica post prima fase pandemica? A chi giova in Europa una nuova militarizzazione alle frontiere che ne limitano la caratura di potenza politica che, pur insediata nell’Alleanza atlantica, svolge una funzione di avamposto della pace, dei diritti umani e di un modello di sicurezza sociale ancora oggi tra i più avanzati al mondo?
La crisi ucraina può trascinarsi dietro anche altri conflitti per procura, compresa una nuova fase di instabilità dei Balcani e la degenerazione dei teatri mediorientali, dove Putin sta costruendo una nuova egemonia a spese delle divisioni europee. Occorre dunque anche a sinistra un giudizio più equilibrato, persino meno emotivo.
Ho trovato onestamente un po’ ingenuo il riflesso condizionato del richiamo ossessivo e sloganistico all’atlantismo che ha caratterizzato molte reazioni a caldo di queste ore. Come fosse una declinazione ideologica, e non una collocazione politica data dalla storia e dalla geografia del Novecento. Eppure anche nel pieno della guerra fredda, le classi dirigenti italiane hanno tenuto quel solco senza rinunciare a quei margini di flessibilità che consentivano al nostro paese un ruolo molto superiore alla propria dimensione economica e militare. Abbiamo contato qualcosa nel mondo quando da alleati non esitavamo a parlare il linguaggio della verità e del realismo. Atlantisti sì, ma senza indossare l’elmetto.