“Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”.
L’articolo 54 della Costituzione dovrebbe inorgoglire chi adempie a compiti pubblici. Sia esso un funzionario, un insegnante, un magistrato oppure un parlamentare. L’idea che le proprie funzioni debbano essere svolte con ‘onore’, e viceversa che quelle stesse funzioni ‘onorino’ chi le svolge è un’idea importante, che nobilita e che spinge sempre a far meglio. L’idea di servire il bene pubblico, per quanto sia complicato, difficile, talvolta persino macchinoso, dovrebbe appunto ‘onorare’ chi è chiamato a farlo. Tanto più se il compito si presenti arduo e faticoso. L’idea del ‘servitore’ dello Stato, talvolta presa di mira ironicamente, rende però bene il concetto. Lo spirito di servizio, la politica intesa anch’essa come servizio, sussidio e professione ‘onorevole’, l’abnegazione di molti funzionari e impiegati, la missione che gli insegnanti sono chiamati ancora oggi a svolgere (dinanzi a stipendi modestissimi) sono altrettante ‘figure’ dell’onorabilità e della disciplina, a cui spesso, va detto, i restanti cittadini non rivolgono un riconoscimento specifico né alcun genere di gratitudine, ma verso le quali, anzi, avanzano accuse di ‘fannulloneria’, solo per usare un eufemismo.
È sbagliato, però, ritenere l’onore soltanto il portato di una speciale etica privata o di gruppo, di un’originaria virtù o di una personale bontà d’animo. Come se fosse effetto di un’inclinazione, o una forma caratteriale oppure l’esito manifesto di un’innata nobiltà d’animo. In realtà, quella stessa onorabilità è un vero e proprio fattore culturale, ed è frutto di formazione, di adesione a valori condivisi, di esperienza strutturata, di interesse verso il bene comune. Dietro l’onore e la disciplina a cui la Costituzione rinvia, ritroviamo per intero lo spirito di una nazione e di una civiltà. Lo specchio, insomma, di valori condivisi. Così che, quando quella disciplina naufraga e l’onore viene a mancare, è perché è già venuta a mancare anche la ragione di fondo che ne motivava l’esistenza. Dietro una cattiva politica, insomma, c’è sempre cattiva cultura, nonché un’etica ridotta alla materialità del vivere, sfilacciata, che ha perso di vista la visione generale in nome di una visione ristretta, più angusta e ridotta a poca cosa da tempi davvero miseri. Viceversa, la buona politica è quella che si innesta su un tessuto sociale saldo, coeso, e che comprende e contiene le lotte, gli scontri e gli inevitabili e salutari conflitti entro un sistema di regole capace di governarli, traendone ogni volta un vantaggio positivo per l’intero Paese.
Cosa succede, dunque, quando viene a mancare proprio questa intelaiatura culturale e di valori? Quando l’etica perde il proprio humus, smarrisce la propria concretezza, il proprio radicamento e si dimostra una tela lacera, entro cui filtra la cattiva moralità in quanto cattiva politica tout court? Succede che interesse pubblico e privato si sovrappongono quasi naturalmente. Succede che la disciplina viene a mancare, surrogata da comportamenti dettati da ristretti calcoli di interessi personali o lobbistici. Succede che l’appartenenza al gruppo omogeneo di interesse prevale. Succede che l’articolo 54 della Costituzione diventa carta straccia. Una situazione che potremmo definire crisi morale e intellettuale, come direbbe un grande della nostra storia, generata da uno sconquasso sociale, da abissi di diseguaglianza sempre più estesi e dalla compressione oltremodo della giustizia sociale. E viceversa, potremmo dire. La disciplina, l’onore, il dovere pubblico, il senso di appartenenza alle istituzioni si sgretolano quando si sfilaccia l’educazione all’interesse generale, la trasmissione dei valori garantita da una continuità tra le generazioni. Quella che si chiama ‘inesperienza’, dunque, non è solo un deficit tecnico di saperi e competenze, ma il venir meno di una sensibilità verso il ‘pubblico’ e verso l’interesse generale, di una preoccupazione verso il destino collettivo, nonché la mancanza di una specifica educazione al bene di tutti e la sfacciata indisposizione verso lo spirito di servizio.
Un ‘inesperto’ non soffre solo di mancanze conoscitive, non pecca solo di ignoranza dei fatti e delle loro regole. Egli non dispone nemmeno della sensibilità giusta verso il bene pubblico. Per dire, vede prima l’ambizione personale dell’interesse generale; è portato a immaginare partiti e istituzioni come scale di accesso al potere; non distingue tra compiti pubblici e sfera privata; è un po’ lasco nei comportamenti e nelle dichiarazioni; gioca un po’ troppo con cose serissime; è portato a surrogare questa sua ‘ignoranza’ con atteggiamenti e strategie da giocatore d’azzardo. Vive insomma la politica e la propria professione come ‘sfide’, come una cosa che ricade soprattutto sulla propria sfera di ambizioni personali piuttosto che sul destino di tutti: di un popolo, di una nazione, di uno Stato. Lo strappo tra le generazioni, ecco il punto, sgrava le più giovani del peso delle responsabilità e delle preoccupazioni collettive, che le più anziane conoscono bene ma che non possono più trasmettere come dovuto e come necessario. Ricordate la ‘rottamazione’? Ecco. Ricordate la disinvoltura con cui si cambiano leggi elettorali, costituzionali e si fanno referendum col ‘pallino’ del potere facile nella testa? Ecco. Ricordate le scalate, le OPA ai partiti, i patti segreti e, oggi, altre vicende che destano preoccupazione a tutti meno che ai diretti responsabili? Ecco. Un Paese lacerato non produce solo ladruncoli e impiegati disonorati. Ma genera una classe dirigente che del potere ha un’immagine ‘padrona’, delle istituzioni una palestra per le proprio esibizioni di forza, dei partiti una scala da salire per arrivare subito laddove si vuole arrivare. Ci chiediamo: non è un’Italia, questa, davvero bisognosa di una riforma morale e intellettuale, di un riscatto culturale, di una riscossa ‘pubblica’, oltre che di una riforma sociale che ristabilisca equità e giustizia? Non servono urgentemente entrambe le cose? E cosa aspettiamo allora?