Arlecchino getta la maschera. Si entra nel dopo Strehler

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Ci vuole coraggio a fare Arlecchino dopo Strehler. Non credo di poter essere smentita se dico che generazioni di spettatori conoscono la commedia goldoniana attraverso le cicliche messe in scena del Piccolo Teatro, con Ferruccio Soleri o Enrico Bonavera.

Io non ho memoria di altri Arlecchini ma ho ben chiara la regia di Strehler, vista almeno tre volte, archetipo sì ma inimitabile, che ha forgiato un immaginario radicato, difficile da mettere tra parentesi.

Bene, Valerio Binasco il coraggio lo ha avuto o, forse, a lui questo coraggio non serve.

La liberazione dal monumento è proprio un caposaldo della sua poetica, che si tratti di Goldoni, Shakespeare, Moliere, Alfieri o autori contemporanei, non fa differenza.

E il suo Arlecchino è proprio un esempio di gran bel teatro, puro, sincero, artigianale. Un teatro di attori che, guarda un po’, san recitare, senza fronzoli di sorta per distrarre l’attenzione.

Una sferzata di ottimismo, in questi giorni di nomine strane ai vertici di teatri ufficiali, che fanno pensare sempre di più che il teatro sia ostaggio del cinema e della tv, o alla meglio della lirica, con i suoi grandi apparati di scene e costumi.

Qui invece siamo di fronte a una squisita operazione di acting, che non vuol dire altro che recitazione.

Il testo viene affrontato nella sua ossatura, libero dal peso delle interpretazioni precedenti e senza una chiave di lettura pregressa che forzi o indirizzi la messa in scena. E il rapporto con le parole è immediato e diretto, e sollecita lo spettatore a un patto qui e ora.

“In questa commedia – si legge nelle note di regia –io avverto il richiamo di qualcosa che ha a che fare con un certo tipo di umanità, la cui anima travalica i limiti del teatro per il teatro e chiede di essere affrontata con maggiore realismo, con maggiore commozione”.

Si spiega così non solo la liberazione dal monumento strehleriano ma anche da tutta l’architettura della commedia dell’arte che sigilla i caratteri dietro le maschere, e ci si concentra invece in un’intimità che è stretto rapporto di anime, che sono duttili e mobili, fatte di desideri, timori, pulsioni.

E forse si spiega anche la scelta di mantenere il veneziano, che suona un po’ strano alle prime battute, ma poi ti ingloba e ti prende per mano, tirandoti dentro una rete tessuta al presente. Anche grazie agli attori che sono perfetti sia nel muovere l’intera macchina scenica sia nell’animarla di vita.

La gestualità sempre accordata con le parole in modo serrato, le espressioni del volto, il gioco di sguardi che reclamerebbero il primo piano, disegnano scene godibilissime.  La disposizione dei piatti all’inizio del secondo atto; i maneggi di Arlecchino per far tornare una lettera a brandelli in formato originale; le esplosioni d’ira dell’innamorato aitante e goffo; il testa a testa dei due futuri consuoceri e, sopra a tutto, due momenti indimenticabili: la seduzione tra Arlecchino e Smeraldina con Arlecchino che chiama in causa il suo doppio e l’incontro tra Clarice e Federico Rasponi, che a mano a mano si rivela Beatrice, un bozzolo o proprio un grumo che non ce la fa più a non liberarsi, sciogliendosi solo di fronte al suo simile. E’ molto brava Elisabetta Mazzullo nel rendere il passaggio tra l’uomo e la donna, o meglio tra la maschera e la verità, che si palesa attraverso piccoli gesti, timida ma incontenibile affermazione di femminilità.

Le musiche di Arturo Annecchino sottolineano bene i momenti di svolta, come le luci di Pasquale Mari, che assecondano i colori tenui delle scene un po’ delabré di Guido Fiorato. Irresistibili i costumi di Sandra Cardini, che sono sempre segni pieni di senso e di ragion d’essere. Un solo esempio, la Smeraldina in odore di corteggiamento con quei calzini turchesi che fanno persino pandan con i fermagli ai capelli.

L’Arlecchino di Natalino Balasso è commuovente nel suo scorticato candore, nell’essere nel posto giusto nel momento sbagliato, nella sua fame atavica e inascoltata, mai soddisfatta. Il Pantalone di Michele Di Mauro è adeguatamente ruvido e sbruffone e il Silvio di Denis Fasolo è molto divertente nel calibrare goffaggine e isteria. Attori tutti giusti e ben coordinati. La Clarice di Elena Gigliotti, la Smeraldina di Carolina Leporatti, il dottore di Fabrizio Contri, il servitore di Lucio De Francesco, il Florindo di Gianmaria Martini e il Brighella di Ivan Zerbinati.

Arlecchino servitore di due padroni, prodotto dal Teatro Stabile di Torino, è in scena al teatro Argentina di Roma fino a domenica 23 febbraio.

Alessandra Bernocco

Giornalista, laureata in filosofia, ama scrivere e cucinare. Da sempre appassionata di teatro, ha insegnato storia del teatro e collaborato come critico a vari periodici tra cui Europa, L’Unità.tv, Multiversi, Dramma e Oltrecultura. Ha pubblicato Suite Bohémien (Robin) e Bip. Il rumore del tempo sospeso (Dialoghi) Si sfoga sul suo blog, Verba manent.