Bologna, domenica 31 ottobre 1926, quarto anniversario della marcia su Roma. La mattina, alle 9.30, prima apertura del Littoriale, il nuovo stadio, simbolo ambizioso dell’investimento che il fascismo intende promuovere sullo sport, meglio, sul calcio. Tre squilli di tromba e il duce fa il suo ingresso a cavallo. Nel pomeriggio, dopo l’inaugurazione di un convegno medico all’Archiginnasio, Mussolini sale sul sedile posteriore destro di un’Alfa Romeo rossa, guidata da Learco Arpinati, capo del fascismo bolognese, da quell’anno sino al 1932 presidente della Federazione italiana gioco calcio, auto che, intorno alle 17.40, proveniente da via Rizzoli, svolta per via Indipendenza.
All’altezza del Canton dei Fiori parte un colpo di pistola (una Beretta 7,65). Il proiettile trapassa il bavero dell’uniforme del duce e la fascia dell’Ordine mauriziano; trafigge il cilindro che il sindaco Umberto Puppini, seduto al suo fianco, tiene con la mano destra sulle ginocchia, perfora la manica sinistra della giacca e della camicia, conficcandosi, infine, nell’imbottitura dell’auto. E’ il parapiglia. Il corteo rallenta. La vettura col duce riparte a gran velocità.
Secondo le versioni accreditate, il presunto attentatore viene bloccato inizialmente da Carlo Alberto Pasolini, il padre di Pier Paolo (nato a Bologna il 5 marzo 1922), tenente del reparto del 56° reggimento di fanteria schierato in quel punto. Altri fascisti giungono a strappare il presunto attentatore dalle mani di Pasolini e a trascinarlo verso il bar Centrale dall’altra parte della strada. E’ un massacro in pieno giorno.
La successiva autopsia accerterà che delle numerose ferite di arma da taglio tre risultano “penetranti in profondità” e tali da poter aver determinato un esito mortale. Le immagini dei poveri resti, raccapriccianti. Un’indagine per tentare di individuare gli assassini non viene neppure iniziata. Il delitto rimane impunito. La vittima, Anteo Zamboni, ragazzo di appena 15 anni e 6 mesi, soprannominato Patata in famiglia. S’incrociano così, quel pomeriggio del 31 ottobre 1926, nel cuore di Bologna, i destini di Benito Mussolini e di Anteo Zamboni. Il duce bersaglio di un fallito attentato; Anteo barbaramente linciato come presunto sparatore. Davide contro Golia.
Un evento noto, ma ancora non chiarito in tutti gli aspetti, sul quale ha scritto pagine preziose Brunella Dalla Casa, nel suo Attentato al duce. Le molte storie del caso Zamboni (edito da il Mulino). La difesa dei familiari, accusati di essere i mandanti, viene assunta da Roberto Vighi, nato il 7 maggio 1891, iscritto al partito socialista dal 1911, primo presidente della Provincia dopo la liberazione dal 1951 al 1970, la cui figura, dal punto di vista politico e istituzionale, per lunghi anni fu complementare a quella di Giuseppe Dozza, sindaco di Bologna dal 1945 al 1966. Giusto rileggere, nella sua opera, quella dei tanti amministratori socialisti dei quali, per una strana forma di damnatio memoriae, raramente si parla. Non si può guardare al socialismo europeo senza riconciliarsi con quello italiano.
Roberto Vighi ebbe il merito di difendere la famiglia dopo la condanna di Mammolo, il padre, e Virginia, la zia, a 30 anni di reclusione e a 3 anni di vigilanza speciale. Lo coinvolse personalmente la mamma di Anteo, Viola. “Un giorno – ha scritto Vighi – alla mia porta bussò una povera donna, dimessamente vestita di nero: era la mamma di Anteo Zamboni, la moglie di Mammolo, la sorella di Virginia, che chiedeva aiuto a me che da molti anni conoscevo la famiglia Zamboni. Non potevo dire di no. La mia coscienza di cittadino mi imponeva di fare tutto quel che mi fosse possibile fare, a qualunque costo, per fare trionfare la giustizia”.
Pare che vi sia stato, poi, un colloquio, tutt’altro che sereno, tra Mussolini e Arpinati, durante il quale Arpinati avrebbe rimproverato al duce di aver interferito sul presidente del Tribunale per ottenere le condanne di Mammolo e Viola Zamboni. Mussolini, allora, lo avrebbe fatto chiamare e questi, interrogato a bruciapelo da Arpinati, avrebbe ammesso. A questo punto Mussolini si sarebbe impegnato ad ottenere la grazia dal re, come avvenne il 24 novembre 1932.
Da allora i rapporti tra Arpinati e Mussolini non furono più gli stessi. Per Arpinati iniziò un declino politico che arrivò sino alle sue dimissioni nel 1933, seguite poi dall’arresto e dalla condanna al confino a Lipari. Per la verità, la storia di quel processo, le ingerenze, le manipolazioni, i depistaggi, costituiscono un uso non solo politico ma anche di Stato della giustizia, iniziato durante il fascismo, proseguito dopo il fascismo.
Ma c’è anche un filo che sorprendentemente porta sino ad Antonio Gramsci. Dopo l’attentato, Mussolini si reca a Forlì per far poi ritorno a Roma, dove, il 5 novembre, con la promulgazione delle leggi speciali, imprime un ulteriore passo verso la fascistizzazione dello Stato e il compimento della dittatura: fine della libertà di espressione, scioglimento dei partiti antifascisti, istituzione del Tribunale speciale, reintroduzione della pena di morte. Pochi giorni dopo, l’8 novembre 1926, l’arresto di Antonio Gramsci, detenuto per 11 anni, in violazione dell’immunità parlamentare, in spregio di ogni legalità, sino a quando, il 21 aprile 1937, dalla libertà condizionata Gramsci passa alla libertà, per morire pochi giorni più tardi, all’alba del 27 aprile.
La ricerca storica più recente ha messo in evidenza come, negli ultimi giorni prima dell’arresto, l’8 novembre 1926, Antonio Gramsci, attraverso un viaggio Roma-Milano, andata e ritorno, nell’arco di poco più di un giorno, nella speranza di un possibile espatrio, che poi non poté aver seguito, sia stato involontario testimone, alla fermata di Bologna, della salita sul treno degli squadristi che avevano partecipato all’uccisione di Anteo Zamboni.