Amava fumare la pipa. L’accendeva anche quando si ritirava nello studio bolognese, rivestito di scaffali di legno e stoffa, ricolmi di carta e libri, per leggere o scrivere. Il tabacco, nel cassetto. Dal modesto Clan, nelle bustine di plastica, al più pregiato Balkan, nelle eleganti scatole di latta, fino alle raffinate miscele Dunhill. Il rito della pipa si accompagnava ad alcuni piccoli inconvenienti: bruciature sulla cravatta, sulla camicia, sul vestito; le dita annerite; le tasche della giacca trasformate in provvisori posacenere, tra fiammiferi spenti e residui di tabacco combusto. Lo ricorda Giana Petronio Andreatta, nel libro, col titolo minuscolo, è stata tutta luce (Milano, Bompiani, 2017), dedicato al marito Beniamino Andreatta (Trento, 11 agosto 1928 – Bologna, 26 marzo 2007).
Un’occasione per tessere il filo della memoria nel riaffiorare di fatti, viaggi ed esperienze professionali, come “relitti di un naufragio”, secondo l’“ordine interiore dei sentimenti”. Non si tratta di una biografia su Nino Andreatta; né di un’autobiografia dell’autrice. Sulla pagina si dispiega un racconto che restituisce l’esperienza di due vite autenticamente vissute. Non senza le fatiche della condivisione. Tre i sentimenti prevalenti: la gioia, la gratitudine, il dolore. Partendo dalla prima impressione tratta da “un giovane e affascinante assistente volontario dell’Università Cattolica”, “che teneva due corsi di Economia e uno di Politica economica”, “con un’andatura sghemba e una borsa di pelle gialla rigonfia sotto il braccio”, che, “a dispetto di ogni previsione, sarebbe diventato mio marito”. Lei diciannove anni; lui ventinove.
Nino Andreatta si laurea in Giurisprudenza a Padova, tesi in Diritto amministrativo, nel 1950; premiato come miglior laureato dell’anno. “La sua passione per gli studi economici, come quella per la politica”, “nate sulle colonne di Cronache sociali, la rivista di Giuseppe Dossetti”. Quindi l’Istituto di Economia come assistente volontario. Nel 1956, il soggiorno a Cambridge. Il Trinity College con gli economisti dello “stravagante gruppo di Bloomsbury”. Sempre nel 1956, la collaborazione, per la parte economica, al Libro bianco di Dossetti. Una storia che un giorno, il 15 dicembre 1999, sembra sul punto di spezzarsi, come se “la trama della vita psichica si fosse strappata”, a causa dello “squillo di una telefonata”, dopo la corsa di un’ambulanza in ospedale, “senza defribillatore e con venti minuti di ritardo”; ma che, invece, si trasforma.
Passo indietro; nel 1957 Milano è una città “in pieno fermento culturale”: conferenze, mostre, cinema, teatro, musica. Enzo Jannacci canta El portava i scarp del tennis. Le librerie: da quella gestita dal cognato di Giulio Einaudi, Vando Aldrovandi, alias Al, “il nome che aveva scelto quando era partigiano”, dove era possibile incontrare Elio Vittorini, “occhio febbrile, alto, magro, di nobile aspetto, coi capelli a spazzola e i baffi da alto ufficiale di cavalleria umbertina, pallidissimo”; a quella di Giangiacomo Feltrinelli, il quale nutriva “un devoto rispetto per Nino”. A teatro, Vittorio Gassman e Carmelo Bene (nonostante “i suoi toni declamatori”). La musica: Alban Berg, Anton Webern, Arnold Schönberg. Le relative letture, tra le quali TheodorAdorno, Filosofia della musica moderna e Massimo Mila, Breve storia della musica. Le frequentazioni: Luigi Nono e Roberto Leydi. Franco Modigliani e Giorgio Fuà. Umberto Eco. A Bologna: monsignor Luciano Gherardi (autore de Le querce di Monte Sole, con un saggio di Giuseppe Dossetti, Bologna, il Mulino, 1994: “Si piegano le querce/ come salici/ sul cuore delle rocce/ a Monte Sole/ Hanno memoria le querce, hanno memoria) e monsignor Giovanni Catti (altro esponente dell’antifascismo cattolico).
Il matrimonio, il 30 settembre 1961, celebrato da padre Camillo De Piaz, personaggio della Resistenza, che, assieme a David Maria Turoldo, “aveva messo in salvo molti ebrei”, tra cui Eugenio Curiel e Gillo Pontecorvo. Ancora a Bologna, l’avvocato Gigi Vecchi e sua moglie Stefania Chiusoli. Maria Simoncini e Dino Gavina, il designer artefice del “geniale manifesto di Magritte”, con la pipa e la colomba, “percorse da un rigo musicale pieno di note e la frase di Man Ray”: La verità, niente di più sovversivo. Giuseppe Alberigo, a lungo direttore dell’Istituto per le Scienze religiose in via San Vitale, a due passi dalle due Torri; altra eredità dossettiana.Nel 1969, in Ungheria, con Renato Mieli, Mario Pirani, Giuliano Zincone. Alla fine di maggio di quell’anno, il matrimonio di Romano Prodi con Flavia Franzoni: “Nino testimone dello sposo”. Nel cerchio della politica: Claudio Napoleoni, Franco Rodano, Francesco Forte. Poi Franco Maria Malfatti, Leopoldo Elia, Pietro Scoppola. Franco Reviglio, Antonio Giolitti e Bruno Visentini. Luigi Granelli e Guido Carli. E Angelo Tantazzi. Fiorentino Sullo e Giuseppe Campos Venuti (il gran tema della mancata riforma dei suoli). Camilla Cederna e Gaspare Barbiellini Amidei. L’impressione tratta da Silvio Berlusconi: “un venditore di tappeti”. L’affaire Sindona, Revelli, Andreotti e lo Ior.
Giana M. Petronio Andreatta si sofferma sull’ambiente della psicoanalisi nella città felsinea. Il decano Renzo Canestrari, Glauco Carloni, Marino Bosinelli, Egon Molinari. L’analisi per circa 3 anni. Nel 1967, in via sperimentale, la scuola di specialità post-laurea in Psicologia: “mi iscrissi e la mia vita cambiò”. Su consiglio di Canestrari “diventai analista e aprii lo studio in casa”; “per me fare la psicoanalista significava e significa ancora trarre dal greggio il diamante che c’è in ciascuno di noi”. Il ’68, la contestazione, cui “presi parte a modo mio”, “mi schierai tra gli studenti, fra esami di gruppo e proteste”, senza assolutismi: “Insomma tornavo a divertirmi”.
Ci sono parti (come da pagina 55) in cui l’autrice si rivolge al marito in un colloquio diretto, spiegando “cosa significa approfittare di un momento di solitudine in strada per gridare come una bestia ferita a morte”; come sia dolente “l’impossibilità di una comunicazione reciproca”; come la presenza fisica costituisca, tuttavia, una “consolazione”, “qualcosa di sacro”, “un tempio dello spirito”, per quanto “crocifisso in quel letto”.
Tanti gli episodi di vita insieme, normale, per niente convenzionale. Una volta, a Milano, in viale Lombardia, a giocare a tennis, in mezzo alla strada, “in cappotto, alla luce dei lampioni”. A Brescia, in occasione di un matrimonio, nel quale Andreatta era testimone di nozze, in valigia due scarpe scompaginate: uguali, ma di colore diverso; “fortuna che non era domenica”, potendo “correre a comprarne un paio nuovo”, “arrivando così con un ritardo consentito di regola solo alla sposa”. Si racconta, col sorriso, dello scandalo che suscitava, un tempo, parlare, in certi ambienti, di Dario Fo e dell’ammirazione per Joan Baez, specie in Barbara Allen.
L’auto usata da lui (prima una Seicento “abbastanza scalcinata”, poi una Dauphine, infine un’Alfa Romeo), ma intestata a lei, senza che lui se ne occupasse, come a proposito del pagamento del bollo, con ritardi tali da subire spiacevoli conseguenze. Una volta l’auto in panne di un amico, il radiatore fumante; Andreatta che entra nel caffè Biffi Scala, chiedendo dell’acqua e gliela offrono in una caraffa di minerale. Un giorno, “sbarcando a Capri dall’aliscafo, vide un signore che conosceva ma che al momento (…) non ricordava bene chi fosse, con un’aria devota e servizievole: quando gli chiese se potesse fare qualcosa per lui Nino rispose: ‘Sì, mi porti a terra il bagaglio, grazie’, dato che aveva problemi con la schiena. Quel signore era Luca Cordero di Montezemolo”. Stravaganze, eccentricità, piccole distrazioni, che facevano “parte indissolubile della sua inventiva, del suo pensiero laterale, del suo trovare in ogni cosa l’aspetto non ovvio”.
Giana M. Petronio Andreatta, ad un certo punto, spiega che, se dovesse rispondere alla domanda “proustiana” su quale sia stato il momento più bello, potrebbe dire: “quando mi ha chiesto di correggergli le bozze” o “quando mi ha proposto l’alternativa segretaria-moglie per andare a Dehli”. Ed ecco, a seguito dell’invito per un anno accademico, il viaggio in India. La sera, “col camino acceso”, a leggere poesie, Mandel’stam o Majakovskij o Pavese, quel Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, “che mi affascinava e mi sembrava insieme un orribile presagio”. In India anche la notizia che “Nino aveva vinto il concorso a cattedra”, professore ordinario di Politica economica e finanziaria nell’Università di Ancona, presso la sede di Urbino. Nel 1963 la cattedra di Economia politica all’Alma Mater Studiorum. Poi l’avvio dell’Università di Trento. Nel 1972, l’incarico di fondare l’Università della Calabria, località Arcavacata, in provincia di Cosenza. A Bologna, nel 1974, la fondazione di Prometeia. Nel 1976, a Roma,dell’Agenzia di ricerche e legislazione (Arel). Va configurandosi un profilo politico dotato di un accento suo proprio: “area Dc”, all’inizio “senza esservi iscritto”, legato ad Aldo Moro, al quale “piaceva sentire il suo parere o far stendere a lui specifici pezzi dei suoi discorsi”. Quindi gli anni al governo. 18 ottobre 1980 – 1° dicembre 1982, ministro del Tesoro. 28 aprile 1993 – 19 aprile 1994, ministro degli Esteri. Tra le leggende la cosiddetta “lite fra comari” – secondo l’espressione usata da Giovanni Spadolini – con Rino Formica: mentre tra i due “ben presto riprese un rapporto amichevole”. In seguito, per gli atti assunti in contrasto con Giulio Andreotti, l’esclusione dal governo: “Se non fosse stato per Tangentopoli forse non ci sarebbe mai tornato”.
Sino alla scelta a favore di un nuovo centrosinistra. Nel febbraio 1995 Andreatta, spaccando il Ppi, lancia la candidatura di Romano Prodi alla presidenza del Consiglio dei ministri. Dopo le elezioni del 1996 entra a far parte, come ministro della Difesa, del primo governo dell’Ulivo; Walter Veltroni vice; tra i ministri: Franco Bassanini, Luigi Berlinguer, Pier Luigi Bersani, Rosy Bindi, Carlo Azeglio Ciampi, Lamberto Dini, Anna Finocchiaro, Giovanni Maria Flick, Antonio Maccanico, Giorgio Napolitano, Tiziano Treu, Livia Turco, Vincenzo Visco. Due successivi presidenti della Repubblica. Nostalgia? No, semplicemente, qualità.
Giana M. Petronio Andreatta sottolinea come Nino Andreatta fosse dotato di una “moralità di stampo austroungarico”; non gli piaceva “l’italiano che si vanta di essere furbo”; detestava “il motto accà nisciuno è fesso”. Quindi due richiami alla sua idea della politica. Una riflessione sulla laicità: “La nostra frequentazione di Bonhoeffer e tanti altri teologi ci porta a sentire che nulla garantisce che le nostre scelte politiche, economiche, giuridiche, abbiano alle spalle la benedizione di un ordinato sistema della filosofia, della storia e dello stato. Ciascuno attinge alla sapienza e cerca di tradurla in azione (…) senza la sacrilega intenzione di coinvolgere Dio nelle sue scelte”. E’ il “discorso di San Pellegrino”, pronunciato al secondo convegno di studi della Dc e che ebbe una forte eco sulla stampa (titolo: Pluralismo sociale, programmazione e libertà).
Un professore, giurista ed economista, con una solida formazione intellettuale, cattolico, dapprima indipendente, poi iscritto alla Dc, parlamentare e ministro, con una vasta rete di amicizie a sinistra, di fronte alla rottura dell’unità politica dei cattolici, opta per il Partito popolare, adoperandosi a favore dell’Ulivo, inteso come tentativo di promuovere una convergenza tra competenze tecniche ed un progetto di governo insieme alla sinistra, di fronte all’esigenza di affrontare la complessa crisi della prima Repubblica: finanziaria, istituzionale e morale. In questo c’è anche l’humus di una cultura politica che, nel contesto bolognese, va da Monte Sole alla Facoltà di Scienze politiche, passando per la casa editrice il Mulino.
Lunedì 26 marzo 2007, dopo 7 anni di coma e le visite con i “camici di tessuto-non tessuto verde scuro”, mentre “a casa ci sono tutti i tuoi vestiti, ogni cosa è rimasta in attesa del tuo imminente ritorno”, verso le quattro del pomeriggio, la notizia: “E’ finita”. Ai funerali, le musiche scelte dal maestro Tito Gotti. Nella Cappella Bulgari dell’Achiginnasio le parole del rettore Pier Ugo Calzolari, di Paolo Onofri e di Carlo D’Adda.
Il libro di Giana M. Petrono Andreatta restituisce un intarsio d’intimità e di vita pubblica, tra gli impegni del giorno, di ogni giorno, non senza le idiosincrasie dell’autrice, nella predilezione, oltre che per la vita culturale, per tutto ciò che è discreto e dotato di gusto. Un testo ben scritto con una sincerità che tiene delicatamente insieme due registri: uno straordinario attestato d’amore oltre la morte, la descrizione di come ci si possa porre, con rettitudine, al servizio delle istituzioni.