Dopo 50 anni, i toni sono quelli trionfalistici di una grande conquista. La legge sul divorzio viene oggi, giustamente celebrata, per quello che è stata: una vittoria dei diritti civili, e quindi una straripante affermazione popolare. Eppure, la genesi di quell’epocale riforma consegna una realtà che impone una riflessione: se sul piano civico le donne fecero da propulsore, in una battaglia che le vide protagoniste (e l’esito referendario affermò ulteriormente il loro ruolo sociale), l’iniziativa meramente politica fu capace di mettere insieme due minoranze, una socialista e l’altra liberale.
I due nomi, legati alla legge sul divorzio, sono infatti quelli di Loris Fortuna, deputato socialista, e Antonio Baslini, che alla Camera era tra i banchi dei liberali. Il loro impegno, su sponde ideologiche comunque diverse, consentì l’approvazione del testo, entrato in vigore nel 1970. Certo, per l’approvazione fu necessario il supporto di tutto il fronte laico, compreso il Partito Comunista Italiano che portò avanti uno sforzo fondamentale anche durante la campagna referendaria. Resta però innegabile che i primi passi furono mossi da due partiti minoritari nel Paese, almeno per quanto riguarda il consenso elettorale ossia i socialisti e i liberali, che mai nella storia politica sono riusciti a imporsi come maggioranza, anche solo relativa.
Eppure la forza che riuscirono a esprimere in quella battaglia si mostrò in linea con la maggioranza degli italiani, dimostrando di saper interpretare il sentimento popolare, indipendentemente dal consenso elettorale.
A 50 anni di distanza da un successo prezioso per la nostra democrazia, non può restare solo la commemorazione di questo risultato. La lezione che arriva da quei giorni, così densi, riguarda il senso più profondo della democrazia, della capacità di una minoranza appassionata, in grado di cambiare la vita di un Paese con un balzo in avanti sul tema dei diritti civili che, non a caso, viene ricordato.
Questa è una stella polare anche per l’attualità, in un’epoca politica molto diversa, in cui spesso essere minoranza sembra costringere all’adeguamento di chi è maggioranza, almeno nei numeri dei voti nelle urne e di conseguenza nella distribuzione dei seggi in Parlamento. Insomma, la legge sul divorzio ci dà un insegnamento da ripetere, ogni giorno, come un mantra: la condizione di minoranza non obbliga la rinuncia alle battaglie.
Bisogna ricordarlo nei dibattiti pubblici, che questo sarebbe un approccio scellerato. Non c’è solo la dignità di essere testimonianza di una (presunta) minoranza, ma soprattutto l’orgoglio di condurre battaglie che possono diventare epocali. E rovesciare equilibri che sembravano immutabili.