Le discussioni alla COP26 di Glasgow hanno portato alla fine a una serie di promesse e annunci fumosi, e sostanzialmente scarsi, per mantenere l’aumento della temperatura globale al di sotto di 1,5 °C. Fatta la tara anche alle innumerevoli frasi di circostanza restiamo ancora lontanissimi dalla riduzione delle emissioni complessive del 45% entro il 2030. Gli impegni per realizzare l’obiettivo del taglio dei gas serra non ci sono.
È stato tutto rimandato al 2022 (la conferenza si terrà in Egitto) attraverso la presentazione di nuovi obiettivi volontari. Arrivando così in ritardo rispetto alla tabella di marcia predisposta a Parigi nel 2015 (COP21). Intanto, stando a una stima elaborata da The Scotsman il summit internazionale che si è da poco concluso avrebbe generato emissioni equivalenti a 102.500 tonnellate di anidride carbonica.
Nonostante il ripetersi di gravi situazioni a livello globale (il 2020 è stato uno dei tre anni con temperature elevate da quando ci sono i rilevamenti), i Paesi più responsabili della crisi climatica non hanno ritenuto urgente affrontare le questioni in modo concreto. I problemi più importanti (come il riscaldamento globale, le alluvioni, la desertificazione, lo scioglimento dei ghiacciai, le ondate di calore e la diminuzione della fertilità del suolo), pertanto, non hanno trovato posto nelle paginette di chiusura della conferenza di Glasgow (“Cara città verde”, in gaelico). Così dietro l’angolo del tanto usato greenwashing restano i pericoli dell’applicazione futura di infrastrutture del gas fossile a braccetto con il nucleare.
Per quanto riguarda il punto dei sussidi, è stato inserito un riferimento alla “giusta transizione” per affrontare il tema della riconversione dei lavoratori del settore fossile e gli aiuti per non far gravare sulle fasce più deboli i costi della transizione. Ma gli impegni finanziari dei Paesi più sviluppati necessari a compensare i danni climatici ai Paesi meno sviluppati prevedono cifre molto inferiori a quanto realmente necessario. Le emissioni di gas serra delle economie più sviluppate rappresentano infatti circa il 76% del totale. Il 10% più ricco della popolazione mondiale emette mediamente 31 tonnellate di CO2 per persona all’anno.
La crisi climatica sta causando cambiamenti drammatici, sia in terra che in mare, con impatti devastanti sulla vita delle persone e la biodiversità. In una bozza del rapporto annuale del comitato scientifico sul clima dell’Onu (Ipcc) si legge che potrebbero essere necessari mille miliardi di dollari all’anno per l’adattamento alla crisi climatica nel mondo da adesso al 2050.
Dal summit della Terra del 1992 a Rio sono passati quasi trent’anni, e nello stesso frangente insieme alle vaghe promesse aumenta la plastica nei mari e le foreste diminuiscono. Quello che resta invariato sono gli obiettivi confusi. Perciò quello che è chiesto alla politica è di prendere impegni precisi e di abbandonare le promesse generaliste di stile gattopardesco. Prendendo coscienza che il Pianeta è limitato, è necessario: arrestare subito il consumo di suolo, rendere effettiva ed efficace la tassa sul carbonio, e favorire meno spreco (nuovo sistema idrico, autosufficienza alimentare, più oggetti riciclabili). Poiché se si lascerà il piede sull’acceleratore del business as usual le temperature potrebbero salire non di un due virgola qualcosa ma di ben 5°C. Quindi sarebbe necessaria un’economia con al centro i bisogni reali delle persone e dimezzare le emissioni entro otto anni (circa 25 gigatonnellate all’anno).
Volgendo, infine, lo sguardo all’Italia allo stato attuale non risulta nessuna concreta proposta per aggiornare il Piano per l’energia e il clima, strumento essenziale per abbattere oltre il 50% delle emissioni nocive e rendere più vivibili (e salubri) le nostre città… se non ora, quando?