Negli ultimi giorni in tanti stanno provando a raccontare ciò che sta accadendo in Afghanistan, soprattutto a seguito dell’attentato all’aeroporto di Kabul.
Quasi nessuno, però, pare ricordare l’inizio di questa lunga storia: ci si limita a tagliare la timeline spingendola direttamente al 2001, quando l’amministrazione Bush jr. decise di invadere l’Afghanistan a seguito dell’attentato dell’11 settembre 2001.
Tutto ciò affonda le sue radici in una storia più lontana: era il 27 aprile 1978 quando il Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan, di ispirazione socialista-marxista, prendeva il potere con la Rivoluzione di Saur, proclamando la Repubblica Democratica dell’Afghanistan con a capo Nur Mohammad Taraki.
Nella nuova forma di Stato vennero introdotte riforme importanti che portavano l’interno Paese nel ventesimo secolo; ciò durò fino a quando gli Stati Uniti d’America non intervennero destabilizzando la situazione attraverso il Pakistan, allora Paese amico, cercando di cancellare la nuova Repubblica Democratica, rea di essere sorta dall’altra parte del muro.
Nello stesso periodo, più precisamente nel 1989, Serge Latouche (filosofo, sociologo ed economista) pubblica un saggio, che a rileggerlo oggi sembrerebbe quasi una profezia, intitolato “L’occidentalizzazione del mondo”, in cui criticava aspramente l’esportazione della democrazia da parte dell’Occidente, ripercorrendo l’imperialismo, il colonialismo e la delocalizzazione. Il teorico della decrescita felice individuò il fil rouge che unisce tutto questo e che ha provocato processi di assimilazione della culturale democratica occidentale.
Latouche non considera più l’Occidente come un’entità geografica, bensì ideologica; in quest’ottica risulta fondamentale l’aspetto religioso, poiché da questo deriverebbe la missione etica del “nostro” mondo, ovvero quella di liberare i Paesi “sottosviluppati” attraverso l’esportazione della democrazia.
Eppure la storia insegna che l’universalità dei diritti e quindi della democrazia da cui essa discende, o viceversa, non sono frutto di alcuna delocalizzazione, piuttosto essa è figlia di una coscienza di classe che cresce attraverso lo sviluppo umano, inteso anche e soprattutto come crescita culturale.
Insomma, se è vero che non si può esportare la democrazia con le bombe, non la si può nemmeno consegnare con un corriere Amazon prime. Perché, se ci si preoccupa di più di armare gli eserciti piuttosto che le coscienze, il risultato sarà quello afghano ed iracheno: il fallimento!
Ancora una volta è questo il messaggio che la storia ci consegna: dopo vent’anni di invasione e di supremazia ideologica, oggi si è incapaci di ammettere le proprie colpe, indignandosi dinanzi alle bombe dei talebani e dei miliziani dell’ISIS, senza interrogarsi sugli errori fatti.
Forse è il caso di tirare in ballo un altro grande del nostro tempo, Gino Strada. Nell’arco dell’intera operazione ISAF, ha sempre sottolineato quanto la democrazia sia figlia di un processo e non di un’imposizione, cosa che altrimenti finirebbe per renderla una “dittatura democratica”, ossimoro e paradosso che trova una sua sostanza nella modalità di nascita del potere.
Poiché alla base non vi è alcun potere costituente liberamente nato, ma imposto.
Ed è qui che vi è il ritorno alla consueta domanda: possono esistere i diritti senza coscienza? Probabilmente no, perché uno schiavo è tale se ha la coscienza di essere tale, altrimenti è uno schiavo per chi lo vede così, ma per lui è un lavoratore come un altro.
La democrazia e i diritti, di conseguenza, andrebbero costruiti con dei processi che culminano in un potere costituente che, a sua volta, diviene potere costituito. In caso contrario, continueremo ad avere delle democrazie deboli.