Le elezioni amministrative non sono finite pari e patta. Ritorna una qualche forma di bipolarismo politico e chi paga di più i primi sei mesi del governo Draghi sono i sovranisti. Questo indica una tendenza, benché nulla sia stabile in questa fase e occorrerà fare i conti nel medio periodo con gli effetti politici delle scelte dell’esecutivo, chiusa – come speriamo tutti – la lunga fase dell’emergenza sanitaria. Provo ad avanzare alcune considerazioni, senza la pretesa ovviamente della scientificità dei numeri, ma cercando di delineare qualche scenario possibile. Sarebbe un delitto non riflettere su cosa è accaduto e non aprire una discussione larga e inclusiva sul destino del centrosinistra e anche della nostra esperienza politica.
1. La destra si può battere e anche bene. Non ha classe dirigente diffusa e sul territorio avanza nomi e cognomi spesso improvvisati, talvolta addirittura impresentabili.
Ha faticato ad attrezzare un’agenda di governo locale credibile, spesso si è distinta su temi di nicchia inseguendo fantomatici no vax e improbabili invasioni di immigrati, piuttosto che applicarsi sulle questioni concrete che attraversavano la crisi delle grandi città: politiche sociali, ambiente, servizi pubblici.
Ha perso o arranca in entrambe le formule con cui si è misurata: quella identitaria di Roma e Milano, indicata da Salvini, ma anche quella più moderata, prediletta da Giorgetti, come Damilano a Torino.
Dunque la destra appare senza schema di gioco, ha leadership che escono indebolite dal test elettorale, paga più degli altri l’astensionismo di massa.
In queste ore, giustamente, molti commentatori invitano alla prudenza e propongono analogie con il ’93 – quando i progressisti sbancarono ovunque alle amministrative ma poi persero le politiche sei mesi dopo. È chiaro che ciascuna elezione fa storia a sé, ma è altrettanto vero che allora si manifestò un federatore a destra che si chiamava Silvio Berlusconi, con una potenza di fuoco economica e comunicativa che rivoluzionò la politica italiana e spostò interi settori tradizionalmente orfani del pentapartito a destra. Oggi non si vede all’orizzonte un nuovo Berlusconi e i campioni della destra non appaiono capaci di mettere in campo una sintesi altrettanto avanzata tra aree del paese, tra interessi sociali diversi e talvolta persino contrastanti. E il tempo non è moltissimo per farlo. Eppure eviterei di suonare comunque campane a morto.
2. L’astensionismo è la piaga più grande, che dovrebbe suscitare un allarme grande quanto una casa per tutti. Quando vota strutturalmente nelle grandi città un cittadino su due, talvolta anche meno, significa che ci avviciniamo sempre di più a una democrazia di stampo anglosassone. Dove soprattutto i ceti popolari votano poco, o se votano sono fortemente influenzabili dal voto di relazione, soprattutto nel sud. Chi paga il prezzo più grande è la destra classica e anche i Cinque Stelle, che frenano la frana ma non riescono ad evitare soprattutto nel centro nord un risultato magrissimo, spesso a rischio sbarramento come a Milano. Il centrosinistra intercetta una parte di voto in uscita dai Cinque Stelle (molto poco per la verità), ma trattiene il grosso dei suoi elettori anche attraverso un’offerta politica più mossa e civica, dove però la fa chiaramente da padrone il ruolo federativo del Pd. E’ evidente tuttavia che nell’astensionismo troviamo anche una quota rilevante di elettorato “addormentato” dalla logica del governo di tutti, che non trova sfogo da nessuna parte, perché anche sulla destra la proposta appare ancora troppo immatura, nonostante la crescita di Giorgia Meloni a scapito di Salvini. Si tratta nella migliore delle ipotesi di un travaso, ma senza alcuna dinamica di espansione. Eppure quando arriveranno le elezioni generali la partita tornerà a ripoliticizzarsi e non basterà soltanto presentarsi come lo schieramento della stabilità contro quello dell’avventura.
3. Il Pd ritorna ad essere il perno principale della coalizione progressista. Era già evidente alle elezioni regionali dello scorso anno, anche laddove si perdeva: oggi mi pare un dato piuttosto consolidato. In termini assoluti perde consensi per via della larga astensione, ma in termini percentuali è primo partito praticamente ovunque, eccetto che a Roma, dove viene un po’ cannibalizzato dalle liste civiche e dal tecnopopulismo di Calenda. I Cinque Stelle recuperano una funzione nelle città dove c’è la coalizione – Napoli e Bologna – ma beneficiano poco ancora in termini elettorali. Il nuovo corso di Giuseppe Conte è solo all’inizio, il passaggio da forza alternativa alle coalizioni a forza coalizionale è ancora tutto da consumare. Forse si è già manifestato nelle urne, soprattutto grazie all’attivismo dell’ex premier giallorosso, ma non ha scaricato granché sui Cinque Stelle. Ha piuttosto aiutato, in alcuni frangenti, la coalizione e i sindaci ad affermarsi. Faccio un piccolo esempio: il comune di Cerignola, dove è candidato il nostro Francesco Bonito con una coalizione giallorossa. Conte fa un comizio a sostegno del sindaco con numeri d’altri tempi – contribuendo a trascinare il sindaco al ballottaggio – ma il suo partito raccoglie poco meno del 2 per cento. Come leggere questo dato se non come una difficoltà a legare la faccia al partito di cui è presidente? Siamo ancora agli inizi, emerge una prospettiva su cui lavorare, ma la coalizione non avanza se si limita ad essere la rappresentazione di Biancaneve e i sette nani. Una coalizione è tale se accanto alla condivisione di valori comuni e di un avversario comune, contiene dentro di sé una dialettica tra culture, interessi sociali, istanze programmatiche.
4. A sinistra si conferma una frantumazione e una molteplicità di proposte politiche che naturalmente pagano un prezzo significativo in termini di riconoscibilità e di radicamento. Non si può fare e disfare a ogni ciclo elettorale un nome, un simbolo, un perimetro. Che siano politiche, europee, amministrative o regionali. La responsabilità è solo nostra, anche quando andiamo bene o benino, come a Bologna o Napoli. Chiaramente anche noi siamo una forza in transizione come i Cinque Stelle. Da una collocazione che nel 2018 ci vide opposti al Pd a una rinnovata tensione unitaria, che ci ha condotto anche a svolgere un ruolo di cerniera utile e riconosciuta ovunque per la costruzione delle coalizioni locali. Lo abbiamo fatto consapevolmente, sapendo che le amministrative erano un passaggio da cui non si poteva prescindere, ma che per le nostre dimensioni e per le nostre caratteristiche rappresentavano un terreno in ogni caso poco congeniale. E lo sforzo di Articolo Uno – per chi ha vissuto la campagna elettorale direttamente – è stato generoso e leale dappertutto. Vorrei abbracciare uno a uno i compagni e le compagne che hanno provato ovunque a tenere una fiammella accesa, quelli che sono stati eletti e soprattutto quelli che non lo sono stati, quelli che hanno passato settimane a volantinare in un mercato, ad attaccare un manifesto, a organizzare un comizio senza grandi mezzi. Li ho visti con i miei occhi girando il paese: meritano tanto, meritiamo tutti di più e meglio. Meritiamo una prospettiva che vada oltre la contingenza elettorale. Siamo nel pieno della ristrutturazione di un nuova alleanza progressista: un’occasione senza precedenti a cui abbiamo lavorato per anni. Che però nasconde anche pericoli: ovvero l’idea che basta stare fermi per riacquisire centralità e consenso. Che basta essere educati per respingere i barbari. Che basta essere moderati per contenere l’onda sovranista. Il consolidamento del voto abitudinario (in termini percentuali, non assoluti) per vincere le prossime elezioni politiche non sarà sufficiente, ci vorrà un po’ più di anima e qualche buona idea. Dovremo dispiegare spirito unitario e capacità di rinnovamento, incrociando anche un civismo di sinistra che esiste e che torna a riconoscersi nella nostra area larga. E dovremo assumere decisioni non più rinviabili, perché una comunità fatica a tenersi insieme se riceve ripetutamente contraccolpi elettorali, pur indovinando le scelte politiche. Se la nostra funzione storica è arare il campo, non possiamo più limitarci a coltivare l’orto.