Si percepisce una nota vagamente inquietante, leggendo tra le righe della lettera inviata da Giorgia Meloni al Corriere della Sera. Una nota inquietante che va oltre la ubris del capo-popolo disposto a difendere i suoi oplites financo di fronte alla degradazione di comunicazioni riservate a chiacchiere da tinello; oltre la debolezza di un Presidente del Consiglio impegnato ad attenuare (o meglio, a neutralizzare) l’impatto delle intercettazioni sui procedimenti penali, ma al contempo disponibile a trasformare le relazioni del DAP in arma impropria di scontro parlamentare; oltre le giravolte verbali del leader di una forza politica la quale – stendendo una cortina d’oblio sulle ben note vicende processuali di alcuni maggiorenti della stagione berlusconiana – tenta di proporsi come inflessibile avamposto della lotta alla criminalità organizzata.
Una nota inquietante, identificabile nella convinzione – più volte declinata dalla nuova destra di governo – secondo cui la vittoria elettorale ingloberebbe in sé il diritto di riscrivere la Storia italiana del ‘900, ovviamente ad esclusivo appannaggio dell’Uomo forte (rigorosamente in senso lato) del momento. Della serie: abbiamo vinto, e ora parliamo noi. Abbiamo vinto: abbassiamo i toni, ma la Storia la (ri)scriviamo a nostro uso e consumo.
E allora: non bastavano i busti del Ducione, elevati a ornamento dei salotti presidenziali; non bastavano i saluti romani, le magliette dei gruppi rocchettari inneggianti a Priebke e gli sdegnati “non partecipo al 25 aprile”, intesi come normali veicoli di libera manifestazione del pensiero; non bastava la trasformazione di Dante in una sorta precursore del “soy una mujer, soy una madre, soy cristiana”. No, non bastava: ecco la sinistra che flirta coi terroristi, magari dopo essersi inchinata alla mafia, per rinfocolare le pose marziali esibite dai vari Donzelli e Dalmastro a beneficio delle telecamere di Porta a Porta.
Flirt coi terroristi; inchini alla mafia.
È troppo, anche per l’esangue opposizione progressista, troppo spesso schiaffeggiata sui banchi di Montecitorio. È troppo, per un popolo, quello della sinistra, che pure in un momento di crisi di rappresentanza e di contenuti non può non recuperare la forza necessaria per contrapporre un concetto semplice agli slogan dei luogotenenti di Giorgia: questa storia non vi appartiene, la nostra storia non vi appartiene.
Non vi appartiene la storia di Pio La Torre, col cui sangue è scritta la legge che configura l’associazione mafiosa in termini di reato; non vi appartiene la storia di Accursio Miraglia e Placido Rizzotto, e di un sogno di terra e libertà contrapposto alle retrive logiche del latifondo; non vi appartiene la storia di Piersanti Mattarella, condannato a morte per la sua ambizione di cambiamento; non vi appartiene la storia di Guido Rossa, icona di un partito – il Partito Comunista – disposto a immolarsi nella lotta al terrore.
Ma soprattutto non vi appartiene la storia di tantissimi parlamentari, magistrati, giornalisti, poliziotti, semplici cittadini che si mobilitarono a presidio delle istituzioni democratiche mentre il fumo delle bombe neofasciste ancora intossicava il cielo di Brescia e Bologna; mentre le trame di una loggia nera (molto segreta e molto potente) progettava la costruzione di uno stato nello Stato, con la benedizione di Cosa Nostra e dei Banchieri di Dio.
Sì, questa è la nostra Storia, che definisce chiaramente chi si è inchinato alla mafia e chi ne ha contrastato le trame; chi ha combattuto il terrorismo e chi invece ne ha cavalcato l’ondata. Questa è la nostra Storia, e non può essere cambiata né dalla vittoria di Giorgia, né dalla faccia feroce di Donzelli e Dalmastro.
Questa è la nostra Storia: e anche se siete maggioranza, non avete il diritto di riscriverla. Semplicemente perché non vi appartiene.