Sono in molti a dire che la destra parla essenzialmente alla ‘pancia’ del Paese. In che senso? Nel senso di rivolgersi agli impulsi, al fondo emotivo delle persone, all’immediatezza dei sentimenti più oscuri, subconsci, magari rinvigorendoli, coccolandoli, cavalcandoli in vista della conquista del potere o della tenuta del consenso. Ma ecco il punto: tutti si muovono come se a questo non vi fosse alternativa possibile. I guru lavorano sulle strategie emozionali, tentando di ingenerare impatti forti, diretti, anche per ottenere (Adesso!) risultati rapidi, anche solo apparentemente. La pancia del Paese promette un’immediatezza nella risposta di massa, ed è quello che oggi si desidera. ‘Non c’è alternativa’ è divenuta una specie di massima comune, magari non confessata ma cogente, soprattutto in epoca media e social. ‘Non c’è alternativa’ vuol dire che destra e sinistra sono appiattite sulla stessa strategia, gli stessi obiettivi, gli stessi metodi, gli stessi guru. Strategia che, tuttavia, è più consona alla destra (che infatti vince anche quando sembra perdere). Sostiene questa tesi ‘pancista’ anche uno psicologo americano, Drew Westen, che fu consulente di Obama. La cerebralità, l’astrattezza non pagano. Hilary avrebbe perso anche per questo.
Imitare la destra, sempre, in ogni circostanza, a partire dalla conquista del consenso. È questo il grande mito della sinistra contemporanea. Imitare allo scopo di vincere e conquistare il potere. Ritenere il mondo senza alternative anche di metodo. È questo il grande e costitutivo difetto delle odierne élite politiche. Tant’è vero che l’idea di pensare la politica come comunicazione, una convinzione ingenerata anche dal contesto tecnico e abbracciata soprattutto dai conservatori (chissà perché), è ormai patrimonio comune. Tecnica che si diffonde. Una comunicazione che deve essere calda, emotiva, che deve colpire basso, e dunque non deve produrre riflessione, anzi impedirla. Un po’ come la musica che viene diffusa nei negozi e che serve ad attenuare lo spirito critico e agevolare gli acquisti compulsivi. Da questo punto di vista destra e sinistra si sovrappongono, con largo vantaggio per la prima. È diffusa difatti l’idea che sia necessario ‘rivoltare’ la pancia del ‘popolo’ per ottenere risultati vantaggiosi, che aggredire e suscitare impulsi diretti sia la via più breve ed efficace al potere, che il linguaggio debba ridursi a qualche bella immagine o a brevi ma ficcanti locuzioni che scatenino sentimenti forti (quasi sempre odio e risentimento) su cui lavorare. È una convinzione diffusa, lo ribadisco, anche a sinistra. Andate a vedere il linguaggio che usano molti (aggressivo, frontale, litigioso, diretto, insultante) per farvi un’idea della gagliarda omogeneità di metodo e intenti.
Ed ecco il punto: è la politica ridotta a comunicazione il vero tarlo che introduce al ‘pancismo’. Essa scivola sulla superficie delle cose, ma assieme aggredisce il fondo dell’animo senza riguardo. La ‘narrazione’ corrente non vuole approfondire i termini dell’alternativa, ma consolarsi con il racconto dell’esistente, anzi accrescerne le paure, perché nulla più dell’esaltazione dell’esistente (privilegi, certezze attuali, posizioni detenute, fobie verso il futuro) è capace, in tempi di crisi, di aggregare un cieco consenso. Muri, confini, ricchezze contro le estreme povertà dell’Altro che incombe, divengono ‘simboli’ immediati di lotta politica. Il marketing politico non punta, difatti, a cambiare le regole del mercato, ma a conoscerle, approfondirle e a inglobarle nella propria strategia di vendita. Non stimola risposte diverse, ma vuole solo adattare le proprie domande alle risposte. Entrare nei meccanismi e oliarli per bene a proprio vantaggio. Conservare anche quando mostra di innovare. Il marketing vuole ‘vendere’ a tutti i costi, e il mercato regola solo la propria efficacia, tanto più quello politico. Ed è come se la politica fosse divenuta ostaggio (o ancella) di regole improprie, e avesse barattato la propria autonomia in cambio della speranza (o illusione) di una vittoria che, da sé, non garantirebbe comunque alcuna efficacia di governo. Anzi, in questi termini, sarebbe un ulteriore elemento di squilibrio irrisolto.
L’alternativa non è la cerebralità, certo. Tanto meno i tecnicismi e gli economicismi. La politica non può fare a meno dei ‘corpi’, soprattutto in questi secoli biopolitici. Pur tuttavia c’è modo e modo di riferirsi al ‘corpo’. Così che puntare tutto sulla cieca reattività degli impulsi non è affatto una strategia obbligata, priva di alternative plausibili, anzi. Noterete come la ‘pancia’ reagisca spesso (quasi sempre) contro le considerazioni umanitarie. L’odio e il risentimento si accaniscono sempre contro gli ultimi, i diversi, gli altri, i deboli. La ‘pancia’ ha in odio il cuore, si presenta solo come un cinico ordigno di offesa. Insistere su questa strategia, anche a sinistra, sarebbe come prolungare e potenziare questi sentimenti oscuri rivolti costantemente contro chi occupa il gradino in basso (i neri, ad esempio) o più alto (le élite). E invece del ‘corpo’ dobbiamo soprattutto salvare il cuore, da cui far sprigionare sentimenti umanitari e anche di adesione alla sofferenza altrui, che è la prima garanzia di una rinnovata coesione sociale. L’odio e la rivalsa non saturano, d’altronde, lo spettro sentimentale ben più ampio del mero rancore. Il cuore è come situato in una sorta di medietà: non è un involucro superficiale tantomeno un impulso recondito e subconscio, ma sta nel frammezzo, come una presa di posizione emotiva per atti e provvedimenti che uniscono invece di dividere. Del vecchio ‘buonismo’ rivendichiamo gli aspetti di solidarietà, di comprensione, di ascolto, fuori ovviamente dalla retorica da piazza adottata da taluni. Senza ‘umanità’ la politica diventa una seduta psicoanalitica alla rovescia, non è tesa a risollevare le pene subconsce ma a rafforzarle a proprio vantaggio, in forma di rancore contro l’Altro, offrendole come ‘scudo’ alla frustrazione di vivere in una società ingiusta e diseguale.
Questo il quadro. Senza dimenticare tuttavia la cornice, che è una concezione della politica ridotta a ‘mosse’ comunicative, a tattiche mediali, a personalizzazione, affidata a comunicatori di professione che oggi siedono nelle riunioni al posto dei dirigenti politici e consigliano il leader come consulenti professionali comprati alla causa. Questa comunicazione-politica (che indica il sopravanzare della prima sulla seconda) alliscia il discorso, lo superficializza, è una fuga per la ‘vittoria’, riduce la politica-ancella al suo semplice involucro. A causa di questa superficialità, essa produce, paradossalmente, un’attenzione assoluta per il ‘profondo’ subconscio del ‘popolo’, lo prende di mira – punta alla ‘pancia’ e agli impulsi e vuole congelare il pensiero. Superficialità e ‘profondità’ vanno a braccetto di se stessi e dei conservatori che ne abusano (anche a sinistra).
Superare l’egemonia e il modello della ‘narrazione’ è oggi un obbligo per chi sta a sinistra: ora dovrebbe essere chiaro. Pensare la politica come espressione di un soggetto collettivo e dell’umanità è l’alternativa necessaria. Far partecipare in modo organizzato, far esprimere, far ‘dire’ questo soggetto sarebbe la vera svolta, invece di ritenerlo solo oggetto succube di una ‘narrazione’ o contro-narrazione di tipo tecnico-professionale. Pensare il corpo nella sua interezza e i sentimenti nel loro intero spettro, non solo come una nervatura di impulsi quasi irriflessi, sarebbe la vera svolta a sinistra. L’alternativa che mira allo stomaco è una prerogativa della destra: ribattiamo così all’osservazione che il citato Westen ha fatto a ‘Repubblica’. Ciò non vuol dire che la politica non debba fare comunicazione e che le ‘narrazioni’ siano solo menzogne al soldo dei conservatori. Ma l’ancella non può essere la politica, semmai il contrario. E l’umanità non può essere un optional buonista, ma una chiave essenziale per il nostro futuro di donne e di uomini alle prese con un mondo grande e terribile, che noi però vorremmo migliore, più giusto e più umano.