Roma di Cuarón, piccoli capolavori fotografici tra l’amarcord e il neorealismo

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L’elemento naturale che scorre, sia come bene primario, sia come metafora narrativa, nell’ultimo film di Alfonso Cuarón, Roma, è l’acqua. L’acqua che, come uno specchio deformante, riflette l’areo che solca il cielo in volo. L’acqua, come quella che all’inizio scivola nel tombino, poi nel secchiaio. L’acqua dei cristalli di grandine picchiettanti su los niños nell’atrio di casa. L’acqua, come quella cosparsa per grattar via, con la scopa di saggina, le macchie lasciate dalle deiezioni. L’acqua nei secchi, per spegnere un incendio. L’acqua livida delle pozzanghere. L’acqua chiara che scende dalla doccia come un lavacro purificatore. L’acqua del grande oceano con le onde gonfie e minacciose. L’acqua che può decidere della vita e della morte. Sino alla rottura delle acque, in una speranza disillusa.

Principio primo di tutte le cose, come riteneva Talete, il protofilosofo; il quale, assorto a osservar le stelle, finì in un pozzo, provocando, come ha ricordato Platone, il riso di una servetta tracia. Il fondamento più antico della filosofia non è in un trionfo, ma in un inciampo. Rischio insito in ogni impresa conoscitiva. Il film di Cuarón riabilita l’elemento primordiale dell’acqua, descrivendo la maschera malinconica della défaillance e cercando di rileggere la vicenda sociale dal punto di osservazione di un mondo minore e ancillare. In parte sfiorando il tema del rapporto servo-padrone, cruciale da Hegel a Marx, sino a Il servo di Joseph Losey, sceneggiatura di Harold Pinter; ma solo in parte.

Dopo essere stato escluso da Cannes, Roma è stato accolto al 75° Festival di Venezia, sino a meritare il Leone d’oro. Ancora forte l’eco delle discussioni che ci sono state, e che proseguono, sul fenomeno Netflix, da ultimo produttore anche del film dedicato a Stefano Cucchi, Sulla mia pelle, diretto da Alessio Cremonini, con Alessandro Borghi e Jasmine Trinca. Dopo più mezzo secolo di una televisione che si è nutrita della storia del cinema, sorprende la sorpresa di fronte alla tendenza, da tempo in atto, di portare il cinema dal grande ad uno schermo sempre più piccolo.

Anch’io, come tanti, apprezzo l’incanto della sala buia. Anch’io, come tanti, credo di conoscere il disincanto che caratterizza l’involuzione del gusto. In questa circostanza, nonostante tutto, siamo in presenza di una pluralità di possibili forme di fruizione, solo che sia pensi al fatto che, almeno in Italia, la pellicola è stata distribuita, in alcune sale, grazie alla Cineteca di Bologna.

Cuarón ha girato Roma non solo in bianco e nero, anche in 65 millimetri. Scelte da cinéphile che poco corrispondono a un cliché meramente commerciale. Senza troppi proclami, senza Weltanschauungen, Cuarón fa cinema, limitandosi a mostrare un’alterità che, dalla dimensione più umile, offre una visione ulteriore, insieme a una relazione orizzontale, quella che avvicina alcune figure femminili, molto diverse tra loro. Un legame più sororale che matriarcale.

Gravity (2013), onusto della gloria di ben 7 Oscar, è stato il film del sublime spaziale: lo smisuratamente grande posto di fronte alla fragilità umana della protagonista interpretata da Sandra Bullock. Chiusa nell’astronave come in uno stato prenatale, in attesa di una rinascita. Roma è un film sul sublime temporale, tessuto sul filo di una memoria spezzata dall’oblio in una sequenza di piccoli capolavori fotografici, giustapposti e ricomposti. Un amarcord, nel senso felliniano, ma riconciliato con il neorealismo.

Anche in questo caso, la solitudine di figure femminili chiamate a farcela, nonostante tutto, da sole. In particolare il focus su Cleo (Yalitza Aparicio), giovane domestica di etnia mixteca, che lavora presso una famiglia borghese del quartiere Roma di Città del Messico, all’inizio degli anni Settanta. Deve fare di tutto e di più: accudire i quattro bambini della famiglia, sovrintendere a ogni dettaglio della vita domestica. Salda nella propria dignità; mentre il mondo intorno si sgretola. Tra Cleo, abbandonata da Fermín e la sua padrona, donna Sofia (Marina de Tavira), abbandonata, insieme ai quattro figli, dal marito medico, si crea un legame, una complicità, un mutuo aiuto. Questo non elimina le differenze di classe, che rimangono. Come, in altro contesto, parlando del “motto di spirito”, Sigmund Freud ha spiegato, il ricco, per quanto possa rendersi educato, gentile, anche amabile, avrà sempre toni familionari.

Marco Macciantelli

Allievo di Luciano Anceschi, dottore di ricerca in Filosofia, già coordinatore della rivista “il verri”, agli studi e alla pubblicazione di alcuni libri ha unito l'impegno politico di amministratore pubblico.