Ancora sul caso Lodi, dal 27 giugno 2017 a guida leghista, per via di quel regolamento comunale che ha escluso alcune centinaia bambini dalle agevolazioni sul prezzo della mensa a scuola e dal servizio scuolabus, non prevedendo l’autocertificazione (D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445), a proposito del possesso di proprietà delle loro famiglie nei Paesi di origine. Poi la giunta ha prodotto delle Linee guida che la consentirebbero, purché accompagnata da una dichiarazione della rappresentanza diplomatica che attesti l’impossibilità, in quel Paese, di rilasciare la documentazione. Contestualmente è partita una gara di solidarietà con raccolta fondi che, ancora una volta, ha dimostrato che un’altra Italia, nonostante tutto, è ancora viva. Ora, al di là dell’evidente disparità di trattamento, in netta contraddizione con tutto l’ordinamento a partire dall’articolo 3 della Costituzione, fondamento di democrazia sostanziale, quel che è accaduto a Lodi è spia di una situazione che non può che indurre allarme sullo stato della nostra convivenza civile. Per il momento, un caso isolato. Uno sui circa 8000 Comuni. Ma è essenziale evitare che una tendenza del genere attecchisca, che non si dia una saldatura tra la propaganda politica sotto un segno di rottura del patto sociale e soluzioni amministrative fondate su presupposti sperequativi o discriminatori.
Forse è opportuno chiarire una cosa. Ciò che definisce un Paese, la sua identità, è anche in una certa idea di legalità coerente con quel buon andamento suggerito, a sua volta, dall’articolo 97 della Costituzione, così ben orientato a indicare la strada di un dinamismo al servizio della collettività. E’ italiano ciò che corrisponde a questi valori. E’ dentro o fuori dall’Italia ciò che è coerente con questo sistema di relazioni tra libertà e responsabilità, diritti e doveri. Indipendentemente dal colore della pelle. Dopodiché la responsabilità è personale. Dei reati risponde, fino in fondo, davanti alla legge, chi li ha commessi, tanto più se efferati come quelli su una ragazzina di sedici anni come Desirée.
L’articolo 117, nella parte riformata nel 2001, tra le materie esclusive dello Stato, al comma b), proprio all’inizio del lungo elenco che arriva sino alla lettera s), evidenzia che l’immigrazione è una potestà esclusiva dello Stato. Non concorrente, esclusiva. Tra gli apprendisti stregoni di riforme costituzionali emersi nel dibattito pubblico degli ultimi anni non risulta che qualcuno ne abbia proposto la modifica. Ma lo Stato è all’altezza del compito? Per lo più tende ad affidarsi alla sussidiarietà sociale, in mare alle Ong, a terra al mondo non profit, laico o religioso, che, per convinzione, non per convenienza, si prodiga a favore dell’accoglienza. Ma quel che manca è una visione coordinata dell’insieme delle politiche pubbliche necessarie perché si dia un’integrazione efficace. Questo non esclude affatto un impegno europeo. Ma bisogna sapere che, in primo luogo, la responsabilità è dello Stato italiano. Una contraddizione tuttora non risolta per chi predica il verbo sovranista.
Quindi, sempre a proposito di Lodi, l’articolo 34 della Costituzione, che, nel primo comma, esprime un concetto con sorprendente capacità di sintesi: “La scuola è aperta a tutti”. Sulla materia vigila, in particolare, una legge, la n. 40 del 6 marzo 1998, Disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, che, all’art. 36, comma 1, spiega che ai minori stranieri presenti sul territorio “si applicano tutte le disposizioni vigenti in materia di diritto all’istruzione, di accesso ai servizi educativi, di partecipazione alla vita della comunità scolastica”. E al comma 2 aggiunge: “L’effettività del diritto allo studio è garantita dallo Stato, dalle Regioni e dagli enti locali…”. La stessa legge 30 luglio 2002, n. 189, meglio nota come legge Bossi-Fini, deprecabile per tanti altri aspetti, non ha smentito, ma confermato questo approccio. Sino al D.Lgs. 13 aprile 2017, n. 62, art. 1, comma 8, dove si ribadisce che: “I minori con cittadinanza non italiana presenti sul territorio nazionale hanno diritto all’istruzione (…) e sono valutati nelle forme e nei modi previsti per i cittadini italiani”.
La preoccupazione delle istituzioni dovrebbe essere non di escludere, ma di non includere abbastanza. Sia prima dell’obbligo, ancor più in riferimento all’obbligo. Le istituzioni hanno in materia precise competenze. Come prescrive il comma 4, articolo 2, del decreto ministeriale 13 dicembre 2001, n. 489: “Le autorità comunali, deputate alla vigilanza, in caso di riscontrate inadempienze, provvedono con tempestività ad ammonire i responsabili dell’adempimento, invitandoli ad ottemperare alla legge”. L’articolo 731 del Codice penale, a sua volta, prevede che sia punito “chiunque, rivestito di autorità o incaricato della vigilanza sopra un minore, omette, senza giusto motivo, d’impartirgli o di fargli impartire l’istruzione”.
Il nostro impianto normativo, ecco, basterebbe rispettarlo. Il D.P.R. 394/1999 resta il principale dispositivo giuridico di riferimento. Nell’articolo 45 si afferma che i minori stranieri sono soggetti all’obbligo scolastico, al pari dei minori italiani. A sua volta la norma vieta la costituzione di classi in cui risulti predominante la presenza di alunni stranieri. La circolare ministeriale 8 gennaio 2010, n. 2, Indicazioni e raccomandazioni per l’integrazione di alunni con cittadinanza non italiana, contiene alcune disposizioni volte a fronteggiare il rischio di un’eccessiva presenza di alunni stranieri nella stessa classe, stabilendo un tetto che non può oltrepassare la misura del 30%, fatta eccezione per coloro che siano già in possesso di adeguate capacità linguistiche. Hanno titolo ad occuparsi della questione il dirigente dell’ufficio scolastico regionale o, eventualmente, il dirigente scolastico; non l’Ente locale, come, da ultimo, invece, è successo a Monfalcone, in un’altra amministrazione, dal 7 novembre 2016, a trazione leghista.
Ecco: fatto salvo il pluralismo delle idee, anche a proposito di immigrazione, dalla filiera istituzionale è legittimo attendersi una corretta applicazione del quadro normativo. Qualche sera fa, intervenendo a una Festa di Articolo Uno, a Villa Fontana, nell’area metropolitana bolognese, Pierluigi Bersani diceva: “Non buonisti ma civili”. Per costruire ponti, non muri, senza sottovalutare il malessere di tanti, intorno a un tema che, come pochi altri, rappresenta una delle faglie in grado di definire le grandi scelte di campo, etiche e politiche, del nostro tempo. Anche qui, non si tratta di rimettere indietro le lancette dell’orologio; ma di andare avanti rafforzando i legami sociali, le reti di relazione, il patto costitutivo di una società inclusiva. Su questo si misurerà la tenuta delle nostre comunità.