Ma cos’è questo ‘popolo’ su cui ci si accapiglia? Questo ‘popolo’ che a sinistra sembra una specie di convitato di pietra? Ma soprattutto: c’è davvero un ‘popolo’, c’è ancora? O siamo soltanto utenti di un supermercato globale, individui senza una ragione sociale, monadi senza porte né finestre? Il populista che va ‘verso’ il popolo, cosa incontra alla fine del percorso: un soggetto politico, culturale, sociale – o solo un grande vuoto ricolmo al più di risentimento e impulsività? Sono domande che dobbiamo farci. Perché sennò ci si ostina a chiedere scioccamente, se il popolo vada blandito oppure rimproverato, se sia buono o no, se debba decidere o essere deciso. Nulla di tutto questo. Noi crediamo che il ‘popolo’ a cui ci si appella sia un’etichetta, una categoria, un’astrazione. Una scorciatoia mediatica, un by pass, un’evocazione letteraria o polemica o retorica. Spesso di comodo, per semplice fretta, per non analizzare a fondo i fenomeni, per contentarci di quattro concetti in fila, per fermarci ai nomi e non affrontare come si dovrebbe le cose. Tutto meno che un’entità reale chiamata a essere protagonista di un eventuale progetto di cambiamento radicale. Al più comprimario o comparsa, in special modo se si ritiene di ‘conquistare’ alla causa un ‘popolo’ delle ‘periferie’. La grande truffa del populismo nasce anche da qui, dal fatto che si evochi uno spettro, una funzione retorica più che una sostanza sociale, un gioco di specchi dove la realtà sbiadisce. Il ‘popolo’ si presenta come un grande vuoto, dentro cui precipita, dibattendosi affannosamente, il sistema politico italiano e non solo.
I vecchi partiti di massa non trattavano con un ‘popolo’, ma coi lavoratori, gli studenti, i pensionati, gli artigiani, gli imprenditori, i disoccupati, gli studenti, i contadini, le donne, i giovani, le famiglie. Erano organizzazioni radicate nel terreno sociale del Paese, che attivavano la partecipazione e sapevano discernere e conoscere e trattare con i soggetti reali della scena politica. Ne sondavano e conoscevano umori, speranze e rabbie. Si poteva articolare la mediazione senza la necessità di allestire un conglomerato confuso di risentimento, da attizzare, manovrare, conquistare. Quelle organizzazioni non erano dirette da qualche arruffapopolo dell’ultima ora, ma da dirigenti; ed erano sostenute da militanti che tentavano di rappresentarne esigenze, bisogni, domande. I partiti non erano sportelli al pubblico, associazioni di utenti o follower di una piattaforma on line: il sistema dei bisogni e di speranze che si esprimeva nella società italiana era analizzato, soppesato, vagliato, ed entrava in una strategia di cambiamento e di riscatto evidente agli occhi di tutti. Il sistema della rappresentanza funzionava, avvicinava esigenze sociali a istituzioni democratiche, come in una sorta di vis a vis, in modo anche critico, conflittuale ma efficace. Non c’era bisogno di truffare su chi fosse il protagonista dell’agire politico, non si evocavano figure spettrali o scorciatoie mediatico-sociali come quella del ‘popolo’, appunto, ma soggetti effettivamente in campo nella loro rudezza e singolarità antiilluministica. I partiti e tutti gli altri corpi intermedi funzionavano attivamente, responsabilmente, non erano recettori passivi, non chiedevano referendum ‘popolari’ su tutto lo scibile, non blandivano, ma intervenivano sul ribollire sociale, indicavano una strategia, ne plasmavano compatibilmente la direzione anche in termini conflittuali.
Le forme di rappresentanza, le istituzioni rappresentative erano agganciate alla società, non sempre con la giusta efficacia, ma la direzione di marcia era quella. Oggi è questo che manca. Potremmo dire che l’evocazione del ‘popolo’ ha preso corpo assieme alla crisi della democrazia rappresentativa: morta la mediazione, è rimasto in campo solo il potere esecutivo, il governo e il premier. Un Capo insomma, che ha tentato un approccio diretto al suo ‘popolo’ – un popolo risentito, rabbioso, pulsionale ma ‘appiattito’, conquistato per essere scagliato contro i poteri dello Stato, i corpi intermedi, gli organi di rappresentanza e tutti gli avversari politici. Il ‘popolo’ è insomma la crisi della democrazia, ne è l’indicatore più evidente, la sirena d’allarme, la spia rossa. Testimonia un meccanismo di rappresentanza inceppato, come causa ed effetto dell’ascesa populista. Antecedente e successivo a essa. Su cui in questi anni ci si è accaniti, sino a mettere in un angolo il Parlamento sotto i colpi dell’opinione pubblica. L’ascesa del ‘popolo’ nel lessico di destra e di sinistra indica il crollo dell’interesse verso le figure sociali classiche, incardinate nel sistema produttivo, dei servizi, della cultura. Una sorta di livellamento ha tentato di ‘allisciare’ il piano sociale, ha attenuato i conflitti di classe, li ha deviati verso obiettivi general-generali, spesso demagogici (i costi della politica, la fine del finanziamento pubblico, l’invasione degli immigrati, i vaccini) dove tutte le vacche diventavano nere, piatte, identiche l’un l’altra.
Si trattò allora di spostare l’attenzione su altro, sul sovranazionale, su ciò che non stava nei nostri confini se non di rimessa: l’Europa, l’euro, le alleanze internazionali, il ruolo degli organismi sovranazionali, Soros, il terrorismo, ancora l’immigrazione quale vero tema pivot. Non che il rapporto con l’Europa non debba essere sondato e riformato, non che il terrorismo non esista, non che i temi sovrannazionali non siano all’ordine del giorno. Il punto era che tutto ciò assumeva un ruolo di cuscinetto, e serviva ad attenuare e allisciare le spinte interne. La ‘nazione’ diventava un magnete: la ‘nazione’ come superamento, spiegazione, chiave e ‘forma’ dei conflitti interni, secondo cui tutte le sue forze dovrebbero allearsi, unirsi in senso quasi corporativo, per modificare i meccanismi e le procedure sovrannazionali che nuocciono al Paese, lo frenano economicamente, gli fanno perdere la competizione sui mercati, lo lasciano ‘povero’, producendo in ultimo (ma solo in ultimo nella considerazione generale) nuove diseguaglianze interne ai danni del ‘popolo’ stesso. Nulla di nuovo in fondo, ‘popolo’ e ‘nazione’ sono figli della stessa madre, si susseguono automaticamente e si evocano a vicenda. È già accaduto cento anni fa che nascessero in Italia movimenti politici dove il ‘popolo’ fosse ritenuto la chiave di accesso alla nazione (e viceversa) in funzione antidemocratica e antisocialista. D’altronde, se il piano dello scontro si sposta dalla classe alla nazione, e si internazionalizza, è ovvio che si proceda in una direzione di allentamento dei conflitti sociali interni e di classe in generale. Uno spettro, insomma, quello del ‘popolo’, evocato per deprimere il ‘popolo’ stesso, e per spingerlo lungo una via di fuga rispetto ai temi ‘interni’ e di giustizia sociale.
La sinistra, allora, dovrebbe ribaltare un processo che in questi anni le ha progressivamente ‘soffiato’ i referenti sociali, incamerandoli in una direzione ostinata e contraria, e che ha prodotto una plusvalore di rancore sociale. L’Italia è cambiata, ma in peggio. Non ha più una nervatura rappresentativa, non produce mediazione ma scontro e irrigidimento, e sembra aver preso una strada che appena un secolo fa ci ha già spinti in un baratro, dopo anni antecedenti di retorica nazionale, di esaltazione del ‘popolo’, di aspirazione alla potenza, di mire espansive, di proiezione estera dei conflitti interni. Peraltro, siamo in difficoltà sul piano culturale, subiamo l’egemonia avversaria, le casematte se le sono prese tutte e o quasi, e dove non sono riusciti le hanno distrutte o hanno tentato di farlo, come la scuola pubblica. La nuova destra non metterà in campo attori, uomini di tv, consulenti globali come nel berlusconismo, ma solidi teorici neocon. La soluzione è lavorare alacremente al ripristino progressivo della rappresentanza, alla rinascita dei partiti, al dialogo con le figure sociali, strappando il Velo di Maya del ‘popolo’ che oscura la nostra visuale. Nessun ‘codismo’: non si tratta di improvvisare sulla scala e sulla partitura prescelte dalla destra (presunta invasione di immigrati, antipolitica, populismo democratico, leaderismo, pulsionalità sociale, primato della nazione) ma di indicare scale alternative, che ‘rileggano’ i problemi e che rigettino le ‘ragioni’ della destra, la lettura che ne fa quest’ultima. Mai come oggi serve anche un linguaggio diverso, servono parole nuove e non un ‘rimasticamento’ delle vecchie. “Periferia” per esempio: sostituiamola con un’altra parola che indichi meglio la solitudine, la sofferenza, il disagio urbano, la distanza, l’abbandono sociale. Le rivoluzioni sono anche linguistiche, riguardano le parole e le forme di pensiero che sono loro associate. L’alternativa è anche un’altra lingua, che si faccia forte della tradizione e assieme innovi e sappia ‘parlare’ il disagio, la sofferenza, lo sfruttamento. Invece di rimasticare e rivoltare le idee della destra, seguiamo una nostra strada, opposta e contraria. Allora sì che torneranno a riconoscerci per quel che siamo, e non per semplici interpreti del copione altrui.