Marchionne: torti e ragioni di un manager, e un dubbio che resta

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Dare un giudizio su Sergio Marchionne e su quello che ha fatto per la Fiat non è operazione semplice; tanto più a ridosso delle drammatiche notizie sulla sua salute e della riunione dei consigli di amministrazione. Diciamo subito che lui venne chiamato alla guida della Fiat in un momento difficilissimo: fuori controllo i conti e le perdite, con obbligazioni sul debito che avrebbero consegnato alle banche la proprietà del gruppo. Oggi il gruppo fattura 140 miliardi, ha azzerato il debito, presenta un ambizioso piano industriale e vende 4 milioni e mezzo di automobili.
Agli azionisti Marchionne non solo ha evitato la perdita di tutto, ma moltiplicato alla grande il valore posseduto. Sta qui il primo e incontestabile punto. Marchionne è stato un abilissimo uomo di finanza capace, prima con le banche creditrici poi con il put verso General Motors e infine con la Chrysler, di utilizzare le risorse finanziarie, compresi i prestiti, per la salvezza e il rilancio dell’azienda. Meno brillante è invece il risultato industriale, dove tutti gli obiettivi di produzione e vendita non sono stati raggiunti, e anche di molto. Alcuni modelli e segmenti di mercato sono stati indovinati ma su altro, come il rilancio dell’Alfa Romeo, i lavori sono ancora in corso mentre il gruppo è in grande ritardo sulla alimentazione elettrica e la ricerca correlata.

Aveva ragione Marchionne a difendere il primato tecnologico del gruppo sull’alimentazione a metano, ma aveva torto quando per dieci anni continuava a dire che il futuro dell’auto non sarebbe stato nell’elettrico, con il risultato di essere in ritardo nei confronti di tutti i concorrenti, tanto più dopo la svolta che la Cina ha impresso al futuro dell’auto.

Con Marchionne e con l’operazione Chrysler il gruppo si è totalmente internazionalizzato: ha sede fiscale e paga le tasse a Londra, mentre la sede legale è in Olanda dove ci sono leggi più favorevoli per gli azionisti di maggioranza.
I suoi successori designati ieri sono tutti non italiani. Le vendite però si concentrano nel mercato Europeo e nelle due Americhe. Nel primo mercato il gruppo è praticamente assente, non a caso quando si parla di future alleanze si pensa a produttori asiatici.

L’Italia ha pagato un prezzo salato per questa scelta: Termini Imerese è stata abbandonata, gli stabilimenti più grandi producono sotto capacità e il cambiamento produttivo tra alta e bassa gamma, di per sé giusto, presuppone però nuovi modelli in grado di affermarsi nei mercati. Anche nelle filiere della ricerca e delle forniture ci sono problemi e appare incomprensibile l’incertezza che negli ultimi anni ha riguardato il futuro della Magneti Marelli.

Infine c’è il nodo della cultura delle relazioni industriali. Onestamente questo è il punto più controverso. Marchionne nei primi anni cerca l’accordo e il consenso dei lavoratori e dei sindacati. Ha rapporti corretti e continui con la Fiom e la Cgil. Addirittura arriva ad affermare che il sindacato italiano è il migliore sindacato europeo. Poi, dopo un contratto nazionale in cui le richieste della Fiat sulle flessibilità degli orari di lavoro non vengono raccolte, Marchionne cambia registro: indurisce i rapporti rompendo con la Fiom e con la Cgil e difende licenziamenti di lavoratori senza nessuna possibilità di mediazione. Allo stesso tempo esce da Confindustria.

Da quel momento tutto cambia: i sindacati si dividono e le vertenze, soprattutto a Pomigliano e Melfi dove tra licenziamenti ingiustificati e reparti confino inaccettabili, esplodono aspre e conflittuali tanto che il rapporto con la Fiom e la Cgil diventa inesistente e di scontro aperto. Nello stesso periodo, dall’altra parte dell’oceano, i rapporti coi lavoratori e il sindacato restano positivi e il fondo pensioni aiuta Marchionne in una operazione finanziaria che rafforza il controllo Fiat in Chrysler. Il rapporto col sindacato diventa in questo modo funzione dell’interesse dell’azienda e degli azionisti soprattutto.

Per completare il quadro, c’è da aggiungere che con Marchionne la Ferrari riprende slancio, aiutata da un brand unico al mondo e da competenze di grande valore in azienda. Anche In Cnh le cose vanno oggi meglio dopo anni difficili in un mercato molto competitivo.

In queste ore si leggono molti giudizi sull’uomo, quasi tutti veri: la sua capacità di lavoro, la sua forza, il senso del rischio e il suo lavoro solitario, l’essere uomo più di finanza che di prodotto e la sua dedizione verso gli azionisti che oggi ne riconoscono il valore con parole sincere. A me resta un dubbio.

Per un periodo ho visto Marchionne tante volte, all’inizio del suo lavoro, quando voleva discutere e cercava sostegno per salvare la Fiat. Tra i ricordi ne ho uno che riguarda i discorsi dei tempi universitari, essendo tutti e due laureati in filosofia. Il dubbio è questo: si poteva evitare la contrapposizione degli anni seguenti, si poteva continuare in un modello positivo di relazioni e rispetto? Non a caso è questo il vero interrogativo che oggi si presenta, non risolto, davanti a noi. Le cose, come si sa, sono andate in altra direzione, ma sono convinto che per il Paese sarebbe stato meglio continuare la strada che si era avviata. Si sarebbe evitato qualche errore e difeso meglio la condizione e i diritti dei lavoratori e la presenza di Fiat in Italia.

Guglielmo Epifani

Già segretario nazionale della Cgil e del Partito democratico. Deputato di Liberi e Uguali. Da sempre impegnato nella difesa dei lavoratori, ora in politica in nome del lavoro e della legalità.