Dalla Costituzione al Contratto: ecco la tragedia della Terza Repubblica

| politica

Il 21 maggio 2018 Salvini e Di Maio hanno presentato al Presidente della Repubblica il “loro” Presidente del Consiglio, nella persona del Professor Avvocato Giuseppe Conte. Conte ha studiato tanto, e in tanti posti. Pur non essendo un costituzionalista, il diritto lo conosce bene, specialmente il diritto privato. Non gli sarà allora sfuggito che, non tanto con la presentazione del suo nome per la Presidenza del Consiglio quanto invece per le modalità di tale presentazione, lui stesso è entrato nella storia d’Italia come il volto che sancisce il passaggio dalla repubblica parlamentare a quella contrattuale. Che diventi un personaggio principale o che scompaia presto dietro le coreografie, Giuseppe Conte apre la tragedia della Terza Repubblica, una fase inedita della storia politica italiana dove gli eletti firmano un contratto col loro “capo politico” e dove il loro Movimento firma un altro contratto con la Lega, e dove quindi il Parlamento non serve più e al suo posto mettiamo notai ed esperti di contratti e di penali da pagare in caso di inadempimento.

Ciò che Conte non può ignorare è però poco chiaro ai più, che pensano alla Costituzione come a un vecchio libro, con alcuni bei principi e meccanismi che – come per l’assemblea di condominio – governano la gestione della “cosa pubblica” da parte degli eletti. In effetti, in un condominio sono i condomini a decidere, e chi non può andare personalmente può lasciare una delega. Questa delega può essere la più ampia possibile (della serie “fai tu, che a me va tutto bene”), oppure può essere molto specifica (“voglio pagare solo per pulire la grondaia, ma non anche per sostituirla”) e, chiaramente, la maggioranza vince. Il delegato, a sua volta, nell’accettare la delega può anche impegnarsi a garantire che si comporterà nel modo da noi voluto e che, ove si discostasse dalle nostre istruzioni, provvederà a pagarci una penale. Della serie: ti avevo detto di votare “no” alla sostituzione delle grondaie, ti sei sbagliato e hai votato “si”, e adesso mi paghi la penale. Oltre al contratto di delega fra i condomini e i loro delegati si può però pensare anche a un altro contratto, un contratto fra i delegati stessi che – riunitisi prima dell’assemblea – si accordino per votare compatti alcuni temi, corrispondenti agli interessi consortili della cordata dei delegati. Questo secondo contratto potrebbe poi anche prevedere che si chieda la sospensione dell’assemblea condominiale affinché – su temi non previsti dal contratto di consorteria – la cordata possa raggiungere un accordo al bar dietro l’angolo e rientrare poi compatta in assemblea per far passare la propria posizione.

Dietro questo schema però si cela il crollo del condominio: non c’è più un interesse di tutti e di ciascuno da ricercare nella discussione (spesso estenuante, questo è vero) in assemblea. C’è una fronda di condomini che, compattatasi a suon di contratti e di penali, diventa padrona di tutti, in barba a chi non fa parte del contratto. Assemblea e amministratore diventano fantocci vuoti che non hanno potere, come il dirigente demansionato messo a pestare l’acqua in un mortaio. Questo è successo al nostro Parlamento, il cuore pulsante della Repubblica.

Il Cinque Stelle ha, da mesi, definito chiaramente la propria visione politica; con la riforma dello Statuto e del Codice Etico ha scientemente costruito una truppa di eletti che risponde al “capo”, che obbedisce e non solo lascia che siano i capi a parlare e agire in nome e per conto del Movimento, ma si impegna anche a votare secondo gli ordini impartiti (pena il pagamento della penale e la gogna mediatica dei “traditori”). Oggi abbiamo fatto un passo successivo: abbiamo spostato la sede della discussione dal Parlamento allo studio notarile.

Ma che male c’è?, si potrebbe obiettare. Va bene, Conte o chi per lui farà un governo che se ne infischia dell’“assenza del vincolo di mandato” (articolo 67), che nega la libertà degli eletti rispetto a “opinioni espresse e voti dati nell’esercizio delle loro funzioni” (articolo 68), che trasforma gli eletti da “rappresentanti della Nazione” a (nella migliore delle ipotesi) mandatari degli elettori o (nella peggiore) emanazioni del “capo politico”. Dove sta il problema? Avrà pure avuto ragione Sartori sul fatto che il Cinque Stelle vuole il ripristino del “mandato imperativo che ci riporta alla rappresentanza medioevale ed è vietato da tutte le costituzioni”, ma se il nuovo governo dovesse cambiare questi articoli della Costituzione, dove starebbe il problema?

Anzitutto bisogna chiarire una cosa: la Costituzione è sia un documento scritto sia una realtà viva. L’assenza di vincolo di mandato resta, ad oggi, scritta nella Costituzione ma, nella realtà, è già bell’e sfumata. L’aver firmato un accordo col Movimento, o il timore di essere messi alla berlina dei social come i “traditori”, già limitano di fatto la libertà di mandato degli eletti, con buona pace dell’inchiostro usato per scrivere e ristampare la Suprema Carta. La demolizione della funzione del Parlamento è un problema perché la logica che ne sottende il funzionamento è volta a garantire il bene comune per cui, tolta quella, vien giù l’ossatura del vivere civile dell’Italia come insieme organizzato di cose e persone.

Cerchiamo di capirla più chiaramente. La società è un insieme di persone che (a seconda dei propri interessi, convinzioni, caratteristiche e aspirazioni) possono essere raggruppate in gruppi, classi o comunità. Col suffragio universale tutti possono votare per cui, tendenzialmente, il Parlamento è uno specchio della società e, allo stesso tempo, è chiamato ad essere il luogo in cui si portano a sintesi i conflitti (fra gruppi, classi o comunità con interessi contrastanti), si ricerca il bene comune e si progetta il futuro in modo tale da contemperare quello che i cittadini votanti vorrebbero oggi con quello che ragionevolmente vorremmo anche lasciare ai cittadini di domani.

Affinché però il Parlamento sia davvero il luogo in cui, nella discussione sincera, ciascuno arriva con un’idea e ne esce arricchito, convinto di aver contribuito a ricercare e definire la soluzione umanamente più vicina al “bene comune” supremo, è indispensabile che i parlamentari siano liberi di convincere e di lasciarsi convincere, possano cioè confrontare diverse opinioni iniziali sul cosa sia il bene comune rispetto a un determinato tema arrivando, gradualmente e per persuasione interiore, ad una accordo che non segue la logica del contratto, bensì quella della ricerca condivisa dell’interesse generale. Sul punto l’università di Harvard ha al lavoro un gruppo di esperti di livello mondiale per cui, se poi Conte volesse continuare ad arricchire il curriculum, consigliamo che faccia pure lì un “soggiorno di studi”.

Ma torniamo a noi. L’idea fondamentale da cui nasce la costruzione del nostro parlamento è che la Nazione sia un’unità che vuole il bene comune. In questo senso ciascun parlamentare deve, secondo la nostra Costituzione, rappresentare la Nazione non nel senso che ciascuno si metta a parlare a nome di tutti gli italiani, ma nel senso che ciascuno ha la responsabilità di ricercare quella “volontà generale” che è volontà del bene comune perché così come una persona vuol per sé solo il bene, così una collettività che è una sola “comunità di destino” non può che volere l’interesse generale. Per farlo i rappresentanti del popolo/Nazione hanno bisogno del dialogo e della libertà di convincere e di lasciarsi persuadere. Questa la tesi fondamentale di Jean-Jacques Rousseau che, nel Contratto, sosteneva che – rispettati i presupposti di democrazia della discussione (che in parte son garantiti dalla Costituzione, e in parte dovrebbero essere garantiti dalla adeguatezza della formazione civica e morale degli eletti) – nel momento della votazione maggioranza e minoranza tornano ad essere un’unità in quanto la minoranza riconosce che “la Ragione ha parlato per bocca della maggioranza”, che la legge approvata corrisponde alla volontà generale, al bene comune. Tutto questo in Italia non esiste più, non che sia mai esistito in maniera perfetta, ma questa era la visione che animava il nostro Parlamento e che, quando non lo animava (vedi “compravendita di senatori”), permetteva di dire che quei comportamenti (di comprarsi l’eletto e di lasciarsi accattare) violavano non solo la legge, ma la stessa Repubblica quale meccanismo che deve garantire il bene comune.

Oggi invece (e in questo la cesura epocale, la Terza Repubblica) Rousseau è diventato il nome di un sistema operativo che viene usato contro la visione del buon Jean-Jacques. Contratto è il nome dato ad un accordo di consorteria che cancella totalmente l’idea rousseauiana del contratto sociale. Il Parlamento diventa sostanzialmente inutile (salvo che per pagare emolumenti ai fedeli del “capo” che non si capisce cosa dovranno fare posto che il “capo” ha già i suoi esperti e consulenti con cui fare le leggi, eventualmente coordinandosi con il Comitato di Conciliazione che viene ad assumere le funzione del Consiglio dei Ministri. Pure il Consiglio dei Ministri (che già Renzi ci aveva abituato a considerare un accessorio del Premier), pure quello, perde la funzione di organismo di discussione e decisione politica nel senso di ricerca dell’interesse generale: per tutto quel ch’è scritto nel contratto vale infatti il contratto, per il resto vale il Comitato di Conciliazione per cui il Consiglio dei Ministri serve solo a tenere un tavolo con delle sedie, e mantenere qualcuno che li deve spolverare.

La mutazione genetica che – nell’azione combinata di questi due contratti – viene indotta nelle istituzioni democratiche è talmente forte da definire uno spartiacque. Si è chiaramente chiusa la Seconda Repubblica e si è aperta la Terza. Entriamo in una fase in cui davvero navigheremo in acque sconosciute, perché di res publica (come cosa comune, bene comune) resta pochissimo. Non è un caso che il famoso “Contratto” richiami sì l’acqua pubblica e il referendum del 2011, ma poi tradisca la visione dei beni comuni e prepari l’ultima grande svendita (200 milioni di euro) del patrimonio (res pubblica) demaniale e dello Stato. Proprio per prevenire tutto questo la nostra Costituzione prevede gli articoli sopra citati. Altrimenti è chiaro che basta scrivere un programma che mette tanti specchietti per tante allodole (perché poi – per flash – i maggiori gruppi d’interesse italiani – dagli animalisti ai sindacati – ricevono tutti il contentino di sentire una parola d’ordine che li lascia sperare), mettere il lucchetto al cervello dei parlamentari, accordarsi di accordarsi dal notaio per quanto non previsto dal contratto, e via che un manipolo di arditi marcia – questa volta però dal di dentro delle istituzioni – alla conquista del potere per il potere.

A questo cambio di paradigma, a questa involuzione copernicana della Repubblica, l’esimio ed eccellentissimo Professor Avvocato Giuseppe Conte ha prestato se stesso. Per cui, sinceramente, di fronte allo sfascio totale delle istituzioni democratiche che – con secoli di sangue e fatiche – avevamo costruito, discutere se Conte abbia imbellettato o meno il suo curriculum ricorda un po’ la disputa sul sesso degli angeli con cui si intratteneva la corte bizantina poco prima di essere annientata dagli ottomani, con tanto di tribù e capi clan. Il problema non è Conte, o Di Maio, o Salvini, il problema è che nella coscienza collettiva la Costituzione è morta. Il problema è che a nessuno frega più niente che i parlamentari siano liberi di votare secondo coscienza, perché nella coscienza non ci crediamo più. Il bene comune puzza solo di moralismo. La fede civile che animava i Padri e le Madri Costituenti è in una crisi profonda, acuita dallo scarso e decrescente rispetto per le istituzioni che ha caratterizzato la Seconda Repubblica (fino alle ultime infornate di fiducie sulla legge elettorale).

A risolvere questo problema bisogna lavorare, incessantemente, come quegli antifascisti che durante il ventennio già preparavano la fase storica successiva. La Terza Repubblica è questa. Dobbiamo iniziare a costruire la Quarta, sperando che la resilienza del popolo italiano lasci qualcosa da cui ripartire dopo che tutti sti contratti – come il gioco delle tre carte – sisaranno rivelati per quello che sono: la messa nel sacco della Repubblica.

Gabriele D'amico

Torinese, avvocato, appassionato di diritto ed economia della cultura, dottorando fra Berlino e Gerusalemme in diritti umani e diversità culturale. Consapevolmente olivettiano, credo nella capacità umana di superare la gregarietà del sistema limbico e ragionevolmente spero in un futuro di sviluppo umano integrale.