Ci stiamo ormai abituando a una società senza partiti? Partiti strutturati, pesanti, che non disdegnino le forme organizzative più innovative né le chance offerte dalla comunicazione mediale e social, ma che siano presenti nei quartieri, nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nella vita sociale e in Parlamento per sviluppare un’azione politica integrale, non da anatra zoppa. Partiti che siano comunità, luoghi di militanza, di partecipazione organizzata, di studio e di dibattito, oltreché di vita associata. Partiti che assumano il ruolo di tasselli essenziali della vita democratica e costituiscano un sistema capace di ‘mediare’ la pancia del Paese in forme di intelletto politico e sociale, necessarie a riavviare un percorso politico e istituzionale oggi sommerso dal darwinismo mediatico e da quello sociale.
Tentare di ridare vita a queste ‘forme’ sarebbe ‘reazionario’, ossia ‘resisterebbe’ al presunto ‘progresso’ attuale, che vede sulla scena, al più, marchi politici occupati da leader ingombranti? Sì, per certi aspetti. Riparlare di partiti, oggi, dopo le picconate di venticinque anni fa e la crisi che già allora era visibile, sarebbe in qualche modo ‘reazionario’. Sarebbe ‘scandaloso’. Ma quale altra medicina conoscete all’arrembante rincorsa verso l’informe sociale, quale rimedio alla ‘massa’ che sostituisce la partecipazione organizzata, quale soluzione alla ‘mediatizzazione’ che ha sconvolto il senso comune, e alla ‘pancia’ che prende il sopravvento assoluto su ogni forma di intelletto politico?
Stiamo franando verso un modello di democrazia frettolosa e compulsiva, oltre che esageratamente verticistica. Nemmeno più i sondaggi riescono a star dietro agli sbrigativi movimenti dell’opinione pubblica. I leader salgono e scendono dai picchi percentuali, bruciano in brevi lassi consensi stratosferici, scontano il vizio demagogico di conquistare il potere con le promesse più azzardate per poi fallire conseguentemente all’atto pratico. È una specie di tourbillon che lascia ogni volta abbacinati. È palpabile la sensazione che manchi una struttura, un fondamento politico, un sistema nell’evoluzione della politica contemporanea. Ora, che vi sia una crisi dei fondamenti (del sapere e dunque anche del potere) è assodato da alcune decine di anni, ma che a questo ci si debba rassegnare in toto è da sciocchi. Certo, il percorso oggi conduce verso forme di governo politico sempre più elitarie, rarefatte, cosmopolite, mediatiche, e ci presenta organizzazioni politiche spettrali nella loro vuotezza leaderistica.
Tuttavia, sarebbe del tutto ideologico ritenere che questo non conosca alternative e che le classi dirigenti della sinistra (o di quel che ne resta) debbano restare con le mani in mano, in attesa che tutto si compia. Non c’è peggiore ideologia di quella che attende ‘compimenti’. Se davvero esiste un ‘cambiamento’ possibile, non può essere così rispettoso di un destino presuntamente segnato. Non può essere amor fati. Ben venga il processo di trasformazione di LeU in partito, quindi. Ma che l’obiettivo sia ambizioso, non il piccolo cabotaggio, non il galleggiamento orgoglioso nel nulla leaderistico e mediale della politica italiana.
I partiti servono a ‘cambiare’ la realtà e i rapporti, fuori da ogni ideologia del mondo compiuto e del destino segnato. I partiti sono, in primo luogo, forme di autonomia politica. Non c’è autogoverno, non c’è partecipazione né soggettività senza una qualche modalità organizzativa. L’opinione pubblica non si governa con sprazzi di opinione personale, ma con strutture e strategie. Al contrario, cedere al flusso delle correnti di opinione, scegliere il galleggiamento non vorrebbe affatto dire che si sia scelto il ‘progresso’. Non vorrebbe dire che esista una direzione storica (la società senza partiti, la politica leggera e fluida) da assecondare nel timore di essere fuori da Main Street, troppo eccentrici rispetto a essa. La sinistra nasce come forza del cambiamento, come potenza per ribaltare il presunto ‘corso’ della storia, non come la più giudiziosa interprete dell’andazzo contemporaneo e del salvamento altrui.
Se ciò è vero, guai allora a pensare in termini di destino, di compatibilità o di andamento da correggere giusto il filino necessario. Non dobbiamo ‘salvare’ nulla, perché c’è poco da ‘salvare’. Piuttosto riscattare l’andamento sociale, le disuguaglianze, le donne e gli uomini secondo giustizia. Tutto è finito quando ci siamo convinti che ci sia solo un mondo possibile, questo, e un solo andamento ‘logico’, quello rigorosamente indicato dalla società di mercato: entrambi da rispettare e ‘compiere’ nel modo dovuto. E invece noi esistiamo per essere anche ‘reazionari’, per reagire al presunto ‘fato’, per ‘frenare’ l’andamento del ‘progresso’, per non subire i cascami della tragedia che si sta compiendo, per essere davvero forze antitragiche e, dunque, giudiziose, attente, sagge ma pronte, in primo luogo, a dare sostanza alla democrazia e a rivoltare il guanto dei rapporti.
I partiti sono attori essenziali di questa sfida, che rimetterebbe in piedi il campo della sinistra in tutte le sue sembianze. Contro l’ideologico ‘progresso’ del mondo che sta sommergendo miliardi di persone, servirebbe finalmente un rimbalzo di soggettività, per ridare corpo alle speranze di riscatto sociale e personale di donne e uomini in carne e ossa, e non di un’astratta umanità. Senza i partiti, senza una forza plurale, organizzata e partecipata la soggettività autonoma si perde nell’entropia generale e tutto si tramuta in una tremenda illusione, di cui noi saremmo gli interpreti meno interessati nella sostanza ma quelli più solerti nei fatti.