Le date possono essere bizzarre ma anche rivelatrici. L’annuncio del varo di un nuovo soggetto unitario della sinistra cade alla vigilia del primo anniversario del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016. Secondo Nando Pagnoncelli un anno dopo i “no” sono (sarebbero) ancora più forti. Sulla base di un documento (Una nuova proposta) e di un’Assemblea popolare, alla presenza di 1500 delegati democraticamente eletti, provenienti da tutta Italia, per “costruire una lista comune alle prossime elezioni politiche”. Si dice che nell’inizio di qualcosa sia il senso del suo sviluppo possibile. Importante partire col piede giusto, tenendo conto di alcune avvertenze.
In queste ultime settimane abbiamo letto e ascoltato tanti, troppi, appelli all’unità; per lo più retorici. Ma l’unica unità possibile, in questa fase, è con la nostra gente; categoria poco politologica, ma che rende bene l’idea. Come qualcuno ha lasciato scritto sulla parete dello stand di una festa, qualche anno fa: Senza la base scordatevi le altezze. Gli elettori sono sempre stati sovrani. Ma oggi sono anche emancipati. Annusano la propaganda sin dalle prime battute; se non superi la soglia dell’attenzione, non riesci neppure a trasmettere il messaggio. Rimane solo un confuso rumore di fondo.
E’ bene avere coscienza dei limiti. Non solo quelli degli altri, anche nostri. Non occorre essere fuori dalla politica per vederli. Per prima cosa, evitare di riprodurre sommatorie o fusioni a freddo; le abbiamo già viste; non hanno funzionato. Non tutto dipende da noi; ma quel che dipende da noi deve essere autentico. Il nostro fondamento, nella disillusione di quanti non si sentono più rappresentati e chiedono di raccogliere le forze del mondo del lavoro, delle competenze, del civismo. Si tratta di coloro che si sono silenziosamente congedati e dispersi, prendendo altre strade, o, rinunciando a prenderne, rimanendo, più semplicemente, a casa. Dobbiamo renderli protagonisti, superando ogni atteggiamento strumentale e utilitaristico, per cui la politica si rivolge loro solo per avere un voto. Dare voce invece che coprire con la propria voce. Riabilitando il senso delle parole dopo il loro logoramento. Non agitare simboli astratti; stare alle cose concrete; e da lì mostrare la nostra idea di Paese, la nostra idea di politica, la nostra idea di sinistra, plurale e civica, ben oltre il perimetro delle forze promotrici; qualcosa che ha la sua identità nei valori della Costituzione.
La quale sta per compiere 70 anni. Fu approvata dall’Assemblea costituente il 22 dicembre 1947, promulgata il 27 dicembre seguente, per entrare in vigore dal 1° gennaio 1948. L’articolo 1, a noi particolarmente caro, approvato già il 22 marzo 1947: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. I padri costituenti vollero collocare il lavoro, tutto il lavoro, all’inizio e al centro, pensandolo come il fondamento del Paese. La sovranità, “nelle forme e nei limiti” della legge, “appartiene” al popolo; è un suo bene.
Priorità: la questione sociale, in tutte le sue declinazioni. Dentro una crisi non solo economica. Schiacciati da una competizione internazionale giocata al ribasso sui diritti dei lavoratori. La risposta al populismo non è altra antipolitica; la risposta al sovranismo non sono altre chiusure (come nella tragedia libica); la risposta all’attacco al Welfare non è la resa sui diritti universalistici. Come ha spiegato Norberto Bobbio, sinistra è scelta di campo a favore dell’uguaglianza. Responsabilità sociale della persona. Economia sociale di comunità. Non girare la testa dall’altra parte. Orientamento equo nella spesa pubblica, insieme a investimenti produttivi, selettivi. Il contrario della monetizzazione. O di slogan come meno tasse per tutti. O come l’abolizione indiscriminata dell’Imu sulla prima casa, obiettivo berlusconiano, puntualmente conseguito, in evidente contraddizione col principio della progressività. Sino ad oggi il malessere sociale si è espresso nella revoca della fiducia. Emergono ora spinte regressive con richiami, da non sottovalutare, verso ideologie totalitarie di destra. Noi dobbiamo offrire, a chi crede nella democrazia, un saldo ancoraggio nella cultura dell’antifascismo, consapevoli che l’ideologia totalitaria di destra si è affermata, nel secolo scorso, in Italia, anche a causa dell’inerzia del sistema liberale, in Germania, per la debolezza della Repubblica di Weimar. Quindi: difendere la democrazia; rispettare il pluralismo; custodire la memoria per salvaguardare il futuro; respingere, senza cedimenti, ogni apologia di fascismo.
Poi la rappresentanza. Bisogna motivare il principio della delega dando respiro a tutte le occasioni in cui la cittadinanza possa contare. Abbassando l’asticella della responsabilità di governo al punto di includere la comunità. Puntando su una democrazia deliberativa che deve aver modo di esprimersi unendo il web al dialogo. Non si tratta di assecondare forme, vecchie e nuove, di marketing politico: ma di sapere che le forme tradizionali del fare politica vanno profondamente rinnovate. Il voto, indispensabile e, al contempo, insufficiente. Tra un’elezione e l’altra serve altro. Nei cinque anni di una legislatura, o di un mandato amministrativo, il mondo ha tempo di cambiare enne volte. Non si tratta di enfatizzare il ruolo dei social media. E’ miope non vedere che essi costituiscano un pezzo della relazione sociale. Il problema del Paese non sono le fake news; che vanno combattute; ma per questo c’è l’articolo 21 della Costituzione.
E’ giunto il momento di guardare in faccia l’Italia: la disoccupazione giovanile al 40%; il travaglio del ceto medio; oltre 5 milioni di italiani sotto la soglia di povertà; 11 milioni di persone che arrivano a rinunciare, in toto o in parte, a curarsi, per motivi economici; l’accentuarsi del senso di vulnerabilità; le paure che colpiscono anche chi fino a poco tempo fa viveva nelle certezze; se chi lavora si ammala, e deve sottoporsi ad un ciclo di visite ed esami, fa fatica, a causa dei ticket, ad arrivare non alla fine, a metà del mese; il drammatico allargamento della forbice delle diseguaglianze; in un Paese ancora fanalino di coda in Europa, dal punto di vista della crescita, con un debito al 132%. Oltre l’immigrazione, c’è l’emigrazione; più di 100.000 persone, per buona parte giovani, ogni anno, vanno via dall’Italia alla ricerca di una nuova vita all’estero. Sono i limiti degli ultimi anni, dalla rottura dell’intermediazione alla marginalizzazione dei corpi intermedi, in un Paese che ha sua ricchezza nella varietà delle forme di autogoverno (sociali e istituzionali, dal terzo settore al sistema autonomistico).
Se c’è una parola di cui la politica dovrebbe riappropriarsi è sperimentazione. Senza timore di forme inedite di comunità politica. Innovazione sociale, culturale e politica stanno insieme. C’è più roba fuori dalla politica che dentro. Ci sono tanti cittadini che non si riconoscono in una visione muscolare, o dogmatica, o da tifoseria da stadio. Una cittadinanza esigente che si pone oltre il perimetro, sempre più circoscritto, dei partiti, tra capitale sociale, non profit, spirito di comunità. La partita politica-cittadinanza non si gioca solo sul piano della contabilità del dare e dell’avere, del cosa c’è per me, ma del cosa c’è per tutti, a partire da chi è più in difficoltà.
L’ispirazione ulivista non ha nulla a che fare con la nostalgia; nessun déja vu; al contrario, è adoperarsi, nelle condizioni date, sempre diverse, per l’innovazione della politica, non contro, con la sinistra di governo. Invece la mistica del partito unico ha contribuito a produrre fideismo e sfiducia: due facce della stessa medaglia. Il tema non è: dove eravamo rimasti. Ma dove vogliamo andare. Oltre la riedizione di storie precedenti. Senza ricette preconfezionate, o esiti prestabiliti, né quelli dell’inizio, né quelli della fine del Novecento.