Nel mio ultimo articolo mi ero espresso contro la parola “discontinuità”, proponendo una lettura congiunta della manifestazione di Campo Progressista del 12 novembre e di un articolo dell’economista Luigino Bruni. In esso concludevo a favore della “unità nella continuità”, suggerendo che per dare corpo ad una visione di Centro-Sinistra in discontinuità radicale con gli ultimi anni non si possa che riscoprire la fecondità del rapporto dialettico fra pensiero marxista e cattolico-sociale, dando continuità a questa dialettica. Dopo aver partecipato all’Assemblea Nazionale di Articolo 1 del 19 novembre, vorrei proporre una lettura congiunta fra gli interventi che vi si sono susseguiti e un successivo articolo di Bruni che, continuando sulla scia del precedente, tratta del rischio delle “finte resurrezioni”. Così come concludevo per la “unità nella continuità”, oggi cercherò di argomentare in favore della “novità come convivialità delle differenze”.
Vorrei farlo a partire da una constatazione. Qualche giorno fa, a Bologna, Romano Prodi ha – in un evento pubblico insieme al premio Nobel Stiglitz – fatto un’analisi della situazione economico-politica mondiale da cui non si può prescindere. Prodi ci ha detto che viviamo in un mondo in cui domina il modello economico del capitalismo neo-liberista (stato minimo, tutto il potere al mercato), modello che però è stato scientificamente falsificato: cioè siamo certi che esso non porterà benessere né giustizia sociale, ma solo un inasprimento delle disuguaglianze, e dunque delle sofferenze umane su scala globale. Non solo, Prodi prevede inoltre (e con lui fior fior di economisti) che – senza uscire da questo modello di sviluppo – con l’avanzamento tecnologico la povertà e la disoccupazione sono destinate a crescere. Nella drammatica analisi di Prodi, però, il vero problema è che la politica (che sarebbe chiamata a porre rimedio a questa situazione) è troppo debole, poiché davanti alla potenza delle forze capitaliste manca una società che – chiedendo a gran voce il superamento del modello – permetta agli strumenti della rappresentanza di cambiare direzione, così evitando la via che porta al collasso generale. L’unica speranza (a livello mondiale, non solo italiano) è, secondo Prodi, che si crei “una reazione morale che poi si traduca in azione politica”.
La domanda che però gli argomenti (scientifici e chiarissimi) di Prodi lasciano elusa è come creare quella scintilla che possa innescare una reazione sociale a catena sufficientemente robusta da permettere il superamento del modello economico oggi imperante nel mondo. La conclusione cui sono giunto – dopo aver sentito tutti gli interventi del 19 novembre e averli letti attraverso il pensiero di Bruni – è che Articolo Uno ha (o potrebbe avere) in una mano la pietra focaia del marxismo, nell’altra quella del pensiero cattolico (formatosi in dialogo con tutte le religioni, con premi Nobel dell’economia del calibro di Amartya Sen). A noi scegliere: possiamo tenerle insieme, e dare avvio ad un processo di rinnovamento globale, oppure possiamo rinchiuderci nella Sinistra, cercando di far fuoco con una pietra sola.
Andiamo però con ordine. I lavori dell’Assemblea Nazionale sono stati aperti da un articolato e sentito intervento di Roberto Speranza. Speranza ha anzitutto ringraziato tutti i militanti per la risposta pronta e generosa con cui hanno aderito alla creazione di Articolo Uno. Di fronte a coloro che, per pregiudizio o incolpevole disinformazione, ritengono che MDP sia “un partitino di ex dirigenti PD senza base”, la massa di delegati radunatisi a Roma (provenienti da ogni regione, in rappresentanza di gruppi di base presenti in ogni provincia) è certamente la migliore obiezione. Questa straordinaria mobilitazione spontanea della Sinistra (eccezionale se si pensa al presente di “passioni tiepide” in cui viviamo) porta però anche con sé – ci mette in guardia Bruni – un rischio. Il rischio è quello della “maledizione dell’abbondanza”, che parte dalla constatazione che: “Quasi inevitabilmente e sempre non intenzionalmente gli immensi frutti che generano i racconti del passato diventano un ostacolo alla creazione di nuovo capitale narrativo”.
I “racconti del passato” si sono incarnati, a Roma, in quella parte significativa di interventi che, tutti aperti con la formula di rito (“Care compagne e compagni”) e quasi tutti da persone nate dopo il ‘68, ci hanno detto che “la sinistra deve essere fra la gente”, che “noi dobbiamo incarnare una moralità superiore”, che “noi dobbiamo redistribuire”, dobbiamo “riaprire le sezioni aziendali”, “riprendere i nostri dal bosco”, “essere quelli dell’equità”, “stare dalla parte giusta”, “stare sugli ideali che conosciamo”. Bruni ci spiega che “paradossalmente, più grande è la ricchezza” di una storia (e la storia del comunismo italiano è davvero una ricchezza straordinaria), più alto è il rischio di finire nella “trappola nella quale cadono Paesi ricchissimi grazie a una sola risorsa naturale, che finiscono per impoverirsi proprio a causa di quella enorme ricchezza”. Questo rischio sembra ben compreso da Speranza, che non a caso chiede di “costruire qualcosa che sia più di una lista: dobbiamo costruire un nuovo grande progetto politico” e ammonisce che “Sinistra è una bellissima parola, ma non può essere una barriera” e che “non dobbiamo avere presupposti di autosufficienza, dobbiamo coinvolgere il civismo, il cattolicesimo democratico, invitando tutti a far parte di questa storia”.
Il “paradosso della ricchezza” di cui parla Bruni è chiaramente il rischio della “Cosa Rossa”. Come fare però per evitarlo? Bruni ci suggerisce due ingredienti. Il primo riguarda le radici, e impone di guardarsi attentamente dalla peste delle “false resurrezioni”. “Le radici” – scrive Bruni – “non sono il passato della pianta. Sono, a un tempo, la sua memoria, la sua vita di oggi e la sua fioritura di domani. Se, invece, si interpretano le radici soltanto come passato, scattano inevitabilmente le tipiche malattie della nostalgia (…). La sola nostalgia generatrice di buon presente è quella di futuro. Quando le radici sono lette come passato, scatta, quasi ineluttabile, la trasformazione in mummia del capitale narrativo dell’origine (…) originata dal desiderio di salvare tutto ciò che è salvabile del vecchio corpo (le forme, lo sguardo, i lineamenti). È, quindi, l’opposto della sua resurrezione. Ma le resurrezioni sono eventi rarissimi. Ci sarebbe bisogno di accogliere la morte vera, di maturare la consapevolezza collettiva che quel primo corpo, con la sua bellezza e il suo fascino infinito, non ci sarà mai più. Accettare che le nuove storie di vita saranno quelle del futuro, che faranno anche capire e “ricordare” il passato”. Queste considerazioni fanno corpo con le parole di Massimo D’Alema pronunciate a Carpi lo scorso maggio. Di fronte a quegli iscritti del Pd che gli rimproveravano di aver “abbandonato il partito”, D’Alema chiedeva invece di riconoscere che “il partito non c’è più”, evitando di “proiettare sull’oggi i fantasmi della propria memoria”, vissuta o putativa. Per non disperdere la storia del Partito, bisogna quindi elaborarne definitivamente il lutto, e poi mettersi al lavoro per far rivivere nell’oggi (e per il domani) il meglio di quella storia. Come?
Anzitutto evitando “slogan e temi generali” (come lamentato da Guglielmo Epifani) e accogliendo l’invito di Stefano Quaranta: “Dobbiamo tornare a studiare”. Solo ritornando alle radici potremo cioè dare nuova vita (e non finte resurrezioni) al Centro-Sinistra, e in esso anche alla gloriosa storia del PCI. Se facessimo questo ci accorgeremmo, ad esempio, che è sbagliata la posizione di chi a Roma ha asserito che se da un lato dobbiamo “definire un progetto di svolta economica e sociale per uscire davvero dalla crisi”, dall’altro però possiamo fare questo “senza riprendere un’analisi di classe”. Di fronte a un giovane, mediamente sfruttato o disoccupato, che in televisione vede programmi come La Riccanza (in cui i rampolli delle classi più ricche vivono fra yacht, jet privati e castelli, preoccupandosi solo di festini e di auto di lusso), noi non possiamo omettere di dirgli che un problema di classe c’è; che se si sente mortificato e deriso dalla vita è perché ha guardato negli occhi quella che due sociologi francesi di fama internazionale hanno definito “la violenza dei ricchi”.
Di fronte alle famiglie, che per far studiare i figli oramai devono vendersi la casetta della nonna, e dove i genitori anziani – se non ci fossero i figli (come ci ha splendidamente ricordato l’intervento della senatrice Guerra) – non avrebbero speranze di un’assistenza dignitosa; di fronte a questi strati della popolazione noi dobbiamo dirlo: che a loro piaccia o meno, la parola “proletariato” parla di loro. Non è solo una questione di “equità”. Le radici di tutto il Centro-Sinistra (non solo della sinistra) si sono sempre confrontate con il marxismo; magari non lo condividevano in pieno, ma ci si sono confrontate. Allo stesso modo a questi giovani, a queste famiglie, non possiamo proporre unicamente la nostalgia di un futuro in cui ci siano pane e casa per tutti. Essi giustamente ci ricordano che “non si vive di solo pane” e che la radice di ogni periferia sta nel suo carattere sociale, antropologico, nell’aver smarrito il senso della dignità umana, del valore della persona come “portatrice di assoluto”.
Per “ridare speranza” bisogna anzitutto avere una fiducia ragionevole nell’umanità (vero antidoto a ogni muro), ripartire dal valore della persona umana come variabile indipendente, come valore assoluto e fondativo di civiltà. Dobbiamo cioè ripartire da quella che Moni Ovadia ha definito “la consapevolezza del nostro essere persone”, che porta a capire che “se vogliamo riconquistare la dimensione dei diritti dobbiamo ripartire dalla dimensione della dignità umana”. Ma – come ci ricorda Ovadia da non credente – “la storia della dignità parte dal monoteismo di Abramo” che vede l’uomo come “portatore di assoluto”. Se è vero che, come dichiarato da Speranza, di fronte alle sfide del presente “ci siamo fatti trovare impreparati”, allora dobbiamo davvero riscoprire gli strumenti di analisi e valutazione della realtà che ci vengono offerti tanto dal marxismo, quanto dal pensiero latamente cristiano. Solo così potremo – come auspicato da Rossi – generare un “nuovo asse culturale, tecnico e umanistico”.
Facendo questo scopriremmo, ad esempio, che “l’uomo non deve possedere i beni esterni come propri, bensì come comuni” ; non è una citazione di Marx, ma viene da un’enciclica del 1891 di Papa Leone XIII. E ancora: scopriremmo che, se va riconosciuto a Bertinotti il coraggio d’aver recentemente riproposto la questione della proprietà privata, sono del 1978 le parole di Papa Luciani che (richiamandosi alla tradizione della Chiesa) ricordava come “la proprietà privata per nessuno è un diritto inalienabile ed assoluto. Nessuno ha la prerogativa di poter usare, esclusivamente, dei beni per il suo vantaggio – oltre il bisogno – quando c’è chi muore per non avere niente”. Bertinotti, nella recente intervista or ora citata, affermava: “Per me un pensiero di sinistra è un pensiero che muove da una critica al capitalismo del proprio tempo (…). Questa autonomia di pensiero io la ritrovo nella Laudato Sii, e non la ritrovo nei discorsi dei leader della sinistra europea”. Il segreto di questa “autonomia di pensiero” sta nella “convivialità delle differenze”, nel saper mettere in dialogo pensieri diversi e persone che li abbiano ben approfonditi, e che davvero ci credano.
Questo deve farci riflettere: non basta dire che “Sinistra non può essere una barricata”; serve anche ammettere che per poter proporre una visione di futuro inclusiva serve avere un baricentro culturale, baricentro che da un lato dovrà certamente riscoprire le radici della Sinistra, ma che dall’altro non potrà mancare di includere il pensiero antropologico e sociale di ispirazione cristiana. Un baricentro può trovarsi solo fra due visioni che sappiano colloquiare fra loro. Senza nulla togliere e riconoscendo il valore di ambientalismo/femminismo/civismo/volontariato/animalismo/etc. questi non sono sistemi di pensiero integrali; non rispondono a domande di senso più profonde del solo carattere meritorio o necessario di una certa (giusta) sensibilità tematica. Essi dovranno dunque essere tutti inclusi, con pari cittadinanza, nel progetto di nuovo Centro-Sinistra, ma il baricentro avrà bisogno del marxismo a Sinistra, e del pensiero cattolico (nel senso di “universale”, non in senso dogmatico) al Centro. “Sinistra” deve dunque riconoscere la propria non-autosufficienza teorica, prima ancora che elettorale.
Solo così essa potrà costruire una vera “novità”, che scaturisca dal dialogo informato e profondo, dalla convivialità (stare insieme attorno alla stessa tavola) di identità diverse che non rinuncino alle proprie specificità bensì le condividano e cerchino – nella collegialità del confronto – una sintesi alta che dia nuova vita ai propri patrimoni ideali. Solo così potremo – come Nilde Iotti dopo aver ascoltato don Tonino Bello – riconoscerci “compagni” intendendo la parola col medesimo significato. Solo così potremo, come lei, dire: “Io ho ascoltato con grande, grandissimo interesse le cose che ci ha detto il Vescovo Bello. Devo dire che, anche se egli si riferiva a cose strettamente legate alla tradizione religiosa, ai testi sacri, io non sentivo niente che non potessi condividere, fino in fondo. Tutte le cose cha ha usato mi pareva che potessero essere un patrimonio comune di tutti coloro che vogliono costruire l’Europa, la casa comune”. E non è un caso che proprio il Vescovo Bello abbia avuto una parte non secondaria nella vita di altre figure politiche della sinistra, primo fra tutti Nichi Vendola.
Dobbiamo riscoprire l’essere “compagni dell’umanità”, e non potremo farlo trasformando l’eredità della Sinistra in una mummia da venerare con frasi di maniera. Dobbiamo riscoprire questa eredità, e condividerla con coloro che come noi – seppur provenienti da storie diverse – come la Iotti “sentono il dolore degli altri come un proprio dolore, e sono pronti a soccorrere, ad aiutare, a trovare i mezzi perché quel dolore sia superato”. Da questa condivisione, che nasce dalle radici e permette loro di fiorire, potremo far scaturire la scintilla di quel rinnovamento sociale sufficientemente forte da tradursi in una riforma politica capace di portare al superamento di “questo” modello economico e sociale oggi imperante che – forse non bisognerebbe lasciare solo il Papa nell’affermarlo – “uccide”. Questa dev’essere la direzione per una vera resurrezione dell’ideale di centrosinistra italiano: unità nella continuità all’esperienza storica del dialogo fecondo fra marxismo e cattolicesimo; novità radicale nella convivialità fra radici diverse, approfondite e vissute come tali – senza timore – e poi condivise come patrimoni comuni.