“Mi considero un utopista, che cerca di tradurre l’utopia in progetto, e non mi domando se è facile o se è difficile, mi domando unicamente se è necessario”. Con queste parole di Danilo Dolci, Giuliano Pisapia ha aperto il 12 novembre scorso un’assemblea fra le più interessanti. Sono intervenuti in moltissimi, dall’ex Dc Tabacci alla presidente della Camera Laura Boldrini, da Roberto Speranza a Gianni Cuperlo. Gli interventi sono stati molti, non solo in termini quantitativi, ma anche per le diversità di visioni e di valutazioni che sono state espresse, con franchezza e rispetto reciproco; sintomo che lo scontro può essere costruttivo e fecondo. Il futuro del centrosinistra dipenderà dalla capacità di studiare queste differenze (che sono solo la punta dell’iceberg rispetto a quelle espresse nella società in generale) e di portarle ad un punto di sintesi.
Molteplici temi sono stati toccati, dalla necessità di individuare un nuovo modello di sviluppo alla definizione di un programma elettorale minimo e condivisibile dai molti soggetti politici di cui gli oratori erano rappresentanti. Una questione su tutte ha trovato interpretazioni e sensibilità molto divergenti: l’alleanza elettorale con il Partito Democratico. Pisapia e con lui tutto Campo Progressista hanno ripetuto il mantra della “unità nella discontinuità”, formula che – seppur con altre sfumature di senso – è stata a più riprese utilizzata anche da Pierluigi Bersani o da Roberto Speranza, a nome di Mdp. Dopo aver analizzato tutti gli interventi e cercato di dare una chiave interpretativa unitaria, sono giunto alla conclusione che la parola discontinuità non aiuti a capire veramente la realtà politica e sociale entro la quale si gioca il futuro del centro-sinistra italiano (futuro che comprende, ma va anche oltre la prossima scadenza elettorale). Credo invece si debba guardare alla continuità e alla questione delle radici.
Per capire questo basterebbe che ci si andasse a leggere l’ultimo articolo apparso sull’Avvenire, a firma dell’economista Luigino Bruni, e che lo si confrontasse con le trascrizioni degli interventi del 12 novembre. Cercherò di fare qui una breve sintesi di entrambi, mettendoli in dialogo fra loro, e lasciando poi a ciascuno il piacere di leggersi l’uno e ascoltarsi gli altri.
Il tema dell’articolo è quello del capitale narrativo nelle Organizzazioni a Movente Ideale (OMI). Le OMI possono essere sia partiti o movimenti, che congregazioni e ordini religiosi. Esse si definiscono per il carattere di raggruppamento il cui motore immobile non sta in un interesse condiviso (come associazioni di categoria o condomini), o in un affare da concludere in comune (come una cordata imprenditoriale o un insieme di azionisti), bensì in una visione, un’idea, per cui – da dentro – tutti e ciascuno si sentono chiamati all’azione. Il capitale narrativo di una OMI è fatto dai suoi ideali, dalla storia di chi vi ha preso parte, dagli sforzi di chi ci ha preceduto nell’evoluzione di una certa comunità, sia essa politica o religiosa. Proprio su questa forma di capitale ha fatto leva l’intervento di Gianni Cuperlo che, nell’assemblea organizzata dall’ex sindaco di Milano, ha citato in un sol fiato Salvemini, Croce ed Einaudi, per dire che bisogna “investire su di una democrazia partecipata, su una politica condivisa, perché questa era la visione di Gobetti, di Gramsci, di De Gasperi, che definiva l’Italia repubblicana una sintesi tra l’umanitarismo di Mazzini e il solidarismo cristiano: il nuovo internazionalismo dei lavoratori; ma questa è anche la fonte del dialogo tra Moro e Berlinguer ed è la radice di un’alleanza antica tra il centro e la sinistra, capace di spingere il Paese a superare le colonne d’Ercole dei suoi ritardi più profondi”. “In questa stagione alcune riforme sono state sbagliate”, ammette Cuperlo ma, chiosa, “non mi arrendo, perché secondo me noi non abbiamo il diritto di sacrificare il bene enorme che abbiamo ereditato da chi è venuto prima di noi”.
Eccolo qui: “il bene enorme che abbiamo ereditato”, quello che Bruni da bravo economista definisce “patrimonio” o “capitale”. Per Cuperlo non si può che auspicare che il Pd possa “fare gesti nella direzione giusta”, che portino a identificare “ quattro-cinque chiavi di fondo per un programma di legislatura e su quelle basi nei collegi si scelgano figure capaci di rammendare una tela strappata”. Non buttare via il bambino con l’acqua sporca è consiglio di grande buon senso, e uno strappo non può certo imporre sempre di buttar via la tela. Però, a leggerlo attentamente, l’articolo di Bruni porta a chiedersi quale sia (e se non lo si sia già ampiamente superato) il limite fra un rammendo e il comando sartoriale di Gesù di Nazareth: “Niuno cuce un pezzo di stoffa nuova sopra un vestito vecchio”.
Il capitale narrativo è quello che, ovunque in Italia, sta portando giovani e anziani a riaprire sedi territoriali con Mdp (ritrovando la passione di un’antica militanza politica), o a spendersi con le Officine delle Idee di Pisapia, e via discorrendo. Il capitale narrativo però – ci mette in guardia Bruni – “è anche il primo meccanismo di selezione dei nuovi membri dell’organizzazione. Più grandi sono i nostri ideali, più grande la nostra anima, più grande deve essere la promessa contenuta nel capitale narrativo per attivarci e farci diventare parte di quella stessa storia. Le storie piccole attraggono persone con desideri e ideali piccoli, le grandi storie conquistano le anime grandi, storie straordinarie attirano persone straordinarie”.
Questa constatazione, che parte da studi scientifici, è verificabile nella storia. Il Pci con Togliatti e la Dc con De Gasperi avevano certi “ideali”, una certa “anima”, una certa “promessa”, ed erano dunque capaci di attirare, di selezionare persone capaci di “conformare la propria vita a quelle convinzioni”. Oggi abbiamo il Renzi del “aiutiamoli a casa loro”, abbiamo la Boschi dei “partigiani finti”. Abbiamo il Presidente del Pd (Matteo Orfini) che pubblicamente sostiene che “la politica, bella o brutta, però è così: pura tecnica”. Dov’è finito quel capitale narrativo di ideali, di lotte, di passione, di senso delle istituzioni, che – seppur nelle diversità – faceva ricchi tanto il Pci quanto la Dc? Una risposta la troviamo, nell’incontro del 12, nelle parole di Carlo Romano che – dalle dichiarazioni sull’Europa a quelle sulla Banca d’Italia – ritiene che Renzi stia “bruciando i mobili di casa” (il patrimonio della “OMI Centro-Sinistra”),“ per scaldarsi ancora un po’, per prendere qualche voto in più alle elezioni, e poi cosa rimane?”.
Luigino Bruni ci offre però una chiave di lettura che ci permette di capire l’intero corso che porta dalla prima repubblica al falò di capitale narrativo che, come le stelle poco prima di spegnersi, porta sempre più frequentemente il Pd alle luci della ribalta mediatica. “A differenza dei capitali finanziari o immobiliari, che possono consentire un flusso costante o crescente di rendita”, spiega Bruni, “i capitali narrativi, se non vengono aggiornati e rinnovati, iniziano a invecchiare e a ridursi. Per loro è massimamente vera la frase di Edgar Morin: «Ciò che non si rigenera degenera». Un’obsolescenza/degenerazione che nei momenti di accelerazione della storia (come è il nostro) può essere estremamente e drammaticamente rapida. Da un giorno all’altro (…) quei primi racconti che fino a ieri convincevano e convertivano, che erano il nostro grande tesoro, che ci avevano incantato e avevano fondato la nostra vita individuale e collettiva, diventano muti, freddi, morti”.
Non possiamo non leggere queste considerazioni di Bruni all’unisono con le dichiarazioni che Massimo Cacciari rilasciava nel 2011, sostenendo che: “non riuscendo a interpretare, a rappresentare, a stare al passo con la rivoluzione sociale, economica e produttiva degli anni ’70 (…) il Partito Comunista non ha capito più nulla, (…) spiazzato totale. Quando salto tecnologico, trasformazioni di fattori produttivi, hanno sconvolto la composizione sociale che aveva visto il Partito comunista come rappresentante per eccellenza (…) da allora non è stato più una forza modernizzante, è stato una forza conservatrice. Il Partito democratico eredita questa storia, e sono forze conservatrici che conservano punto su punto i dati della prima repubblica: quel lavoro dipendente pubblico, quegli spezzoni di lavoro ancora operaio eccetera”. La discontinuità vera, per Cacciari, non può che partire dal discutere degli strumenti di senso che il centrosinistra italiano ha e sta utilizzando per analizzare e comprendere la realtà, senza fare “come nel ’91, dove le questioni di fondo le accantonarono per fingere dell’unità che non c’è. Meglio una discussione che giunge ad una divisione sensata, analizzata, compresa, che continuare a fingere unità che non esistono. Questo è il problema del Partito democratico”.
A distanza di anni Cacciari risuona col timbro della profezia, e Bruni aiuta a integrare e spiegare l’analisi di Cacciari. “L’esaurimento del capitale narrativo è la causa più comune di crisi e di morte di una OMI”, avverte Bruni. Anche quando “si capisce che la crisi ha a che fare con la nostra incapacità di narrazione del cuore del carisma”, il rischio è quello di sbagliare cura. “La cura errata più comune è l’aggiunta di nuove storie più facili da comprendere nel “secolo presente”, ma che non hanno più il Dna della prima storia. Tanti finalmente capiscono, perché, semplicemente, stiamo raccontando un’altra storia”, così continua Bruni. Il rischio di questa cura sbagliata, che cerca un’unità “che non esiste”, è evidente in molti interventi del 12, che si basano sull’idea che il problema si possa risolvere con “quattro-cinque punti”, con una lettera a Babbo Natale che dice “equità!” (ma non ci dice se ancora crede alla lotta di classe, o chi tiene la bilancia), “diritto alla felicità!”, “benessere bene comune!”, dove l’utopia in cui continuare a credere testardamente (come “gli ultimi giapponesi”) non è più la vittoria del proletariato, e neppure lo sviluppo integrale della persona umana, è solo il definire “quattro-cinque chiavi di fondo per un programma di legislatura”, “prescindere da provenienza e appartenenza politica” perché l’importante è fare “la proposta”, e che sia legata ai “valori che hanno sempre costantemente contraddistinto il mondo progressista”, come “ l’innovazione, la sostenibilità, l’inclusione, la bellezza”.
“Il problema decisivo che si nasconde in simili operazioni, oggi comunissime” ci spiega Bruni (che – capirete – forse bisognerebbe invitare alla prossima riunione) “riguarda direttamente il capitale narrativo. La nuova associazione non può più utilizzare il primo capitale narrativo, che resta una risorsa per i soli archivi o per qualche frase per i biglietti di Natale. Qui non c’è innesto di nuove storie sul vecchio albero, ma soltanto la sostituzione del primo capitale narrativo con il nuovo”.
Il problema è dunque nelle radici. Già Prodi criticava i CinqueStelle proprio sul tema della radicalità, sostenendo che la loro vera cifra di novità fosse quella di “aver rinunciato a qualsiasi radice”, alle “basi ideologiche che implicano scelte diverse”. La questione ha poi un’ulteriore sfaccettatura, perché quando sostituisci capitale narrativo il risultato è che – come descrive Bruni – “arrivano membri con una adesione sempre più leggera. In altre parole, il nuovo capitale narrativo non seleziona più vocazioni ma simpatizzanti, o lavoratori impiegati nelle opere”. E questa, nel PD, è la questione del ricircolo di popolo, del ricambio di sangue, a più riprese posta, fra gli altri, da Bersani e da D’Alema.
L’innesto buono, la vera novità su cui creare una unità non di facciata (e neanche di comodo elettorale o di nuovi followers cui mettersi a rimorchio) è quella capace di “innestarsi sul vecchio albero”, di dare continuità a una storia, di ascoltare i segni dei tempi e capire che le voci di quelli che per decenni sembravano i perdenti della storia (da Toniolo alla Luxemburg, da Ingrao a Paronetto, da La Pira a Olivetti) oggi ci impongono di riprendere in mano la loro eredità, di portare ad una sintesi alta un patrimonio di idee e di visioni che nel Partito democratico (nonostante i dissenzienti come Cuperlo) è stato ridotto a legna da ardere. Non ci sono le condizioni per un’alleanza non perché non si possano trovare quattro politiche di buon senso da portare avanti insieme, ma perché una volta bruciate le radici, il Pd si è condannato a sfracellarsi nel burrone dell’irrilevanza storica.
Pisapia, il cui impegno in buona fede è un capitale narrativo straordinario, non condivide questa lettura. Nel suo intervento ha invece esortato a “ riconoscere che” nel campo del centro-sinistra “insieme al grano è cresciuta anche la zizzania”, suggerendo che dunque “serve una rivoluzione, che sia credibile e che si nutra di idee e di passioni”. Questa bella citazione evangelica, però, andrebbe letta con continuità, dunque richiamando gli scritti dei Padri del Deserto che ci consigliano, anziché cercare di sradicare le erbe cattive (che poi sempre ricresceranno), di coltivare l’orto della nostra vita a partire da un angolino, facendo poi sì che siano le piante belle, espandendosi, a togliere terreno alla zizzania. Se faremo questo, se ci concentreremo sul ricercare una continuità radicale con secoli di pensiero cristiano da un lato, e marxista dall’altro, scopriremo – ad esempio – che non solo “bisogna cambiare il modello di sviluppo” (come ha sostenuto la Presidente Boldrini), ma che i due modelli oggi più coerenti sono quello delle Nazioni Unite da un lato (la nozione di sviluppo sostenibile ed inclusivo), e quello della Chiesa Cattolica dall’altro (la dottrina cattolica dei diritti umani, oggi più comunemente nota come sviluppo umano integrale).
A queste storie noi dobbiamo dare continuità, a questa profondità di radici troveremo i “tesori sepolti nel campo”, in questo modo eviteremo (in linea con quanto argomentato da Giulio Santagata) di scadere nel “nuovismo” e sapremo “rimettere al centro valori molto antichi e molto solidi”. Se pensiamo che rifare il centro-sinistra possa tradursi in un maquillage elettorale, in un civismo sradicato che si illude di poter prescindere dalla storia passata e proporre a livello nazionale (e di politica internazionale) il buon senso dell’innovazione e dell’efficienza energetica, potremo magari portare a casa qualche voto utile in più, magari convincere gli indecisi che pensano che un governo sia come un amministratore di condominio (che ti mette i pannelli solari e le spese le divide in base ai millesimi di ricchezza). Di certo però avremo perso un’occasione storica: lasciare la strada dell’unità “pur che sia” e ascoltare le voci che vengono dalle nostre radici.
Lo ha fatto il Papa. In moltissimi si ritrovano in “quello che dice”. Il fatto però è che la sua non è un’opinione, ma si fonda su decenni di lavoro, di lotta e di riflessione, di uomini e di donne che hanno tenuto vive le radici, che non hanno avuto paura di essere “di testimonianza”, ma hanno mantenuto la lampada accesa nel mezzo della bufera. Non erano soli, sapevano che sarebbero riemersi, che conservavano la linfa che sarebbe stata necessaria nell’avvenire, a noi. Questi uomini e queste donne, che includono anche Gobetti (sia Piero che Ada) ma che arrivano fino a ogni persona che ha sperato in un avvenire di giustizia e di pace, sono loro la determinante maggioranza del centro-sinistra. Con loro dobbiamo proporre agli italiani che oggi possono andare a votare di immaginare insieme quale futuro sia degno di questa nostra storia, di questo patrimonio vivente che dobbiamo salvare dai cugini piromani che hanno occupato la masseria di famiglia. Se sapremo fare questo, potremo ancora sperare di sconfiggere il centro destra – oggi compatto – riconquistando ai (ri)trovati ideali, a visioni strategiche di più ampio respiro, quella maggioranza di elettori che negli ideali delle nostre radici si sono sempre riconosciuti, o che ci si riconoscono già pur senza saperlo.
Il tempo è di certo tiranno. Laddove i rinnovati sforzi dei rappresentanti della sinistra non consentissero al momento di battere la destra italiana e, soprattutto, il partito degli astensionisti (non a caso così numeroso), si saranno comunque poste le basi per una nuova fase costituente di un centrosinistra che sappia riscoprire e lottare per quegli ideali che ne costituiscono le radici. Ciò che tutto vince non è il timore (delle destre o dei populismi), è la fede in un mondo di giustizia che ancora non esiste: questa è Utopia. Saranno le nostre opere a dimostrare se ci crediamo davvero, oppure se siamo mossi dalla paura elettorale. Senza timore e in compagnia delle nostre radici potremo allora essere a posto con la nostra coscienza, preparare il futuro, servire gli ideali, e se poi saremo colti – come Piero sul portone di casa – dai manganelli fascisti potremo dire con le parole di Guglielmo Jervis: “Non piangetemi, non chiamatemi povero; muoio per aver servito un’idea”, un’idea che abbiamo trovato nelle radici di ciò che di più buono e di più bello ci ha preceduto.