Non si sa chi abbia inventato la ‘società civile’ come categoria politica. Che sarebbe già una contraddizione in termini, visto che si fa assurgere ad attore politico istituzionale chi non lo è, mentre si degradano a semplici spettatori gli attori politici stessi. Come se questo ribaltamento di ruoli e prospettive, che appare intrigante nei plot letterari, fosse garanzia in sé e per sé di migliori performance di governo. Fatto sta che anche un parte della opinione pubblica di sinistra è ubriaca di questa tendenza ormai più che ventennale. Ma la società civile interpretata come società politica è un paradigma che porta con sé anche nuovi criteri selettivi degli attori pubblici. Questi:
a) inesperienza (più si è inesperti, principianti, imperiti, puri e meglio sarebbe);
b) ignoranza politica (più non si sa nulla di partiti, istituzioni, iter, procedure, competenze burocratiche e meglio funzionerebbe la cosa);
c) tecnicismi (più si è specialisti di qualcosa – progettare ponti, operare pazienti, fare consulenze tributarie, ecc. – e più si sarebbe adatti a governare e mediare nell’interesse generale);
d) mancanza di appartenenza politica antecedente (con il corollario ‘destra e sinistra sono categorie superate’): meno ci si è schierati in passato, si è pronunciato un giudizio politico, si è lasciata trapelare anche confidenzialmente un’appartenenza e meglio sarebbe;
e) forte e assodato convincimento che i ‘partiti’ (tutti) siano la fonte sorgiva di ogni male, inefficienza, disonestà e perciò da tenere al mordacchio, e dunque buoni solo per eleggere ‘tecnici’ o chirurghi o inesperti e ignoranti di cose politiche in genere in Parlamento, per poi farsi da parte;
f) fissazione compulsiva sulle ‘quote’ elettive e partecipative per ogni genere di ‘eletto’ (tipo 40% di presenti al teatro, 22% di sarti e tintori, 6% di residenti a Monteverde), ciò contro la ‘voracità’ dei partiti medesimi e dei loro terribili iscritti e/o simpatizzanti;
g) cronica tendenza a personalizzare e individualizzare la battaglia politica, sia per ciò che riguarda i leader, sia per ciò che riguarda i ‘militanti’ civili: l’assenza dei partiti incoraggia a pensarsi individui sparsi sia al vertice sia alla base, con tendenze alla dispersione che si tramutano in sopravvalutazioni antecedenti di taluno e sberle elettorali successive;
h) mito del curriculum (per il quale Giuseppe Di Vittorio avrebbe al più distribuito volantini scritti da un commercialista di Busto Arsizio);
i) insorgenza di un registro linguistico traboccante di oratoria, demagogia a basso costo, solide invettive, manicheismo, mancanza di riguardo pure nei confronti di chi (partiti, dirigenti politici) si pretende debba eleggere in Parlamento persino il tuo igienista dentale o l’informatore medico o il chiropratico.
Che cosa abbia prodotto questa tendenza è ormai sotto gli occhi di tutti. Un Parlamento e delle amministrazioni locali strapiene di gente che non sa dove mettere le mani, e tende per brevità a fare opposizione anche quando esprime la maggioranza. La fine delle competenze politiche come frutto di studio e lungimirante esperienza. L’idea che il buon selvaggio istituzionale sia meglio del professionista della politica. La facilitazione e la brevità di pensare che tutte le colpe siano della politica, senza perdere tempo ed energie nelle analisi vere e proprie. Una crisi della politica alimentata, senza troppi paradossi, anche dai critici della politica stessa. L’assurgere rapido a Palazzo di personale che fino a ieri compilava ancora tesi di laurea, sosteneva la maturità o vendeva polizze online. L’idea che tutto debba partire ‘dal basso’, con ciò intendendo ‘opposto all’alto’. La produzione di una diffusa retorica del ‘cittadino’ che fa girotondi, si tinge di viola, si indigna, sfoga la sua frustrazione contro i ‘politici’, parla di stipendi parlamentari come si trattasse di un esperto commercialista, teorizza che è tutto un ‘magna magna’, con un andazzo linguistico che vorrebbe chiamare a raccolta gli astenuti, ma intanto ne fomenta la crescita. L’idea che il civismo non sia lo sfondo sussidiario della politica, ma il rostro da agire contro di essa. La convinzione che il ‘popolo’ sia tutto ed esaurisca dal basso la scena, per poi, tuttavia, affidarsi mani e piedi alle élite civiche dei professori, dei chirurghi, degli ingegneri e dei tecnici di laboratorio. Il sogno di istituzioni sterilizzate da quello che viene definito ‘politicismo’, composte di individui irrelati, che in un quarto d’ora fanno riforme e in mezz’ora le applicano, tanto al chilo. L’idea, infine, che la democrazia sia una grande assemblea in un teatro, oppure un plebiscito, o un post su FB con tanti like, o un sit-in caciarone davanti a Montecitorio, oppure una provvidenziale botta di comunicazione, e magari un po’ di sana indignazione da riversare a fiumi dinanzi a una telecamera tv, rivolta in special modo contro D’Alema o Bersani (te pareva!). L’impressione che se ne ha, è che l’idea sacra di partecipazione sia ormai immiserita a evento, ondata, flash mob, transito fugace su uno schermo tv, assemblea che fa la ‘ola’, movimento fluttuante ed episodico, codazzo nervoso di questo o quel leader, quasi sempre magistrato, recentemente anche avvocato o professore. Democraticismo più che democrazia, insomma.
È impossibile a queste condizioni pensare la ‘partecipazione’ nella sua forma più efficace, quella organizzata, che utilizza il canale dei partiti, dei sindacati, dell’associazionismo democratico e le regole delle comunità pubbliche, e intende la democrazia non come un sussulto estemporaneo di indignazione ma come condivisione costante e responsabile, rete di relazioni regolate, esperienze, saperi diffusi, forme comuni, nonché sensibilità specifica verso l’interesse generale, le forme della mediazione, le istituzioni rappresentative e regolative della vita pubblica. La crisi italiana, il suo ultimo atto, è divenuta recrudescente quando alla crisi dei partiti si è risposto con la demonizzazione degli stessi (che, poi, è come prendersela coi malati vittime di un’epidemia) e quindi con ondate di indignazione calate su basi sociali e partecipative alla lunga sempre più flebili. Dopo oltre vent’anni, appare invece evidente che la risposta dovesse essere opposta. Fare un partito nuovo della sinistra, per produrre democrazia e partecipazione, e coltivare un senso di prossimità ai luoghi di lavoro, di formazione, ai soggetti sociali e ai territori, dovrà essere il primo mattone di un grande e rinnovato edificio democratico, il cui progetto sarà proposto a tutti gli italiani, a partire dai più disagiati, dai più sofferenti socialmente, dagli ultimi, da chi sta dall’altra parte di una faglia che si allarga. Ribaltando precipuamente il metodo e le politiche di questi anni.