Sono lontani i tempi dell’Unità d’Italia. Oggi si gioca la partita della divisione. Non della secessione, a cui non crede nessuno, ma della frammentazione pulviscolare dei poteri, che ingaggiano lotte furibonde e tentano improvvide scalate verso la sommità. Le forme sono quelle dei referendum per l’autonomia, l’idea guida è “Roma ladrona’. Ma c’è anche, non ultima, la scalata dell’outsider alla vetta della politica. In scena vediamo poteri economici, lobby, pezzi di establishment, grandi gruppi mediali, interessi locali che assurgono a rilevanza nazionale, con poteri più oscuri, massonici o segreti a fare da background all’orchestrina. Questa è l’Italia di questi anni. I campanili sono divenuti più aggressivi, i poteri settoriali o specialistici sono talvolta delle cricche, mentre la politica ha assunto una fisionomia adeguata a questa metamorfosi. La politica, appunto. Che in uno Stato, anche in tempi di globalizzazione, ha il compito di collante dell’unità nazionale, e non solo quello essenziale di rappresentanza dei conflitti sociali, che pure sono il sale sempiterno della democrazia.
La geopolitica italiana è terremotata. Il Paese è sempre più allungato e ci restituisce un livello politico non all’altezza, anzi principale responsabile (e insieme principale danneggiato) della fase di spinta antigravitazionale dei corpi intermedi, dei territori, delle province, dei poteri locali, specialistici, economici e chi ne ha più ne metta. È una storia che ha almeno 20-25 anni, e che ci narra una trasformazione del tessuto politico avvenuta a colpi di maglio e di violente sterzate. Il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica ancora oggi grida vendetta. Quella rete solidale di autonomie locali, quella fase di folta rappresentanza parlamentare, quell’idea che l’unità nazionale, costituzionale, popolare non fosse un orpello, ma una base comune di intenti e di vita comune entro cui i conflitti fossero regolati, oggi è dissolta. L’immagine della politica ne rispecchia l’essenza profonda: semplice campo di scontri affinché un vincitore possa mettere le mani sullo Stato, invece che rete di unità dove maturano e si innestano i conflitti reali, in vista di soluzioni democratiche anche radicali. Quel che c’è sulla scena oggi è, invece, una drammaturgia di leader inadeguati e parziali essi per primi, che tuonano mediaticamente e puntano all’indebolimento delle istituzioni perché ritengono che così si accrescano le loro chance.
Troppi poteri o micropoteri hanno scoperto che le istituzioni indebolite o chinate sono funzionali al loro dispiegamento. Che la crisi della politica apre il fianco all’assalto allo Stato, per arraffarne dei ‘pezzi’ e cibarne i propri valvassori e valvassini. Che la medesima crisi dissolve legami non solo istituzionali ma anche sociali e culturali. E che i partiti (o meglio, il ‘sistema’ dei partiti) sono attaccati e insultati da decenni per escluderli dal consesso e aprire le valvole della miriade di appetiti stipati ai confini e dentro le mura della cittadella statale. Non che gli stessi partiti non vivessero una crisi profonda, è dagli anni ottanta che se ne parla. Ma c’è modo e modo di affrontare il nodo: tagliarlo di netto oppure sciogliere il groviglio. Chi ha tentato l’assalto al potere in questi anni (a colpi di maggioritario, leaderismo, riforme istituzionali, referendum tranchant) ha spezzato il filo e, senza nemmeno tentare di riannodarlo a modo proprio, è subito partito alla carica in direzione Montecitorio e Palazzo Chigi (soprattutto quest’ultimo), portandosi dietro i propri accoliti. Anche la sinistra è stata al gioco, purtroppo, interpretando riduttivamente la fase.
L’Opa al Pd, i referendum autonomistici, l’abisso che si spalanca sempre più tra Nord e Sud, Roma ladrona, il Parlamento ridotto a camera di ratifica, l’esecutivo prima di tutto, i poteri locali tramutati in sindacati territoriali e trampolini di lancio, il ruggito della provincia che vuole il proprio, il lavoro antistituzionale compiuto da pezzi delle istituzioni stesse, la ‘divisività’ concepita come valore, l’avvento di partiti aziendali o personali o mediali, il traboccamento dei leaderismi, la rappresentanza (che è indice di unità) squarciata dal maggioritario (che vuol dire ‘vincere’ anche in pochi e poi si vedrà) sono solo un esempio di fenomeni che oggi anneriscono il quadro. Quel che riesce difficile a molte culture, oggi, è concepire l’idea di unità non come irenismo, ma come la base corretta, il contesto adeguato affinché i conflitti, le lotte e persino gli scontri durissimi e radicali possano avere un senso e un’efficacia e non ridursi a velleitaria esibizione di muscoli e opinioni personali in un contesto politico degradato. Non c’è grande politica senza unità, senza una cornice che garantisca adeguatamente il pieno dispiegarsi dei conflitti, mettendo comunque in salvo le istituzioni. Ripensiamo al ‘compromesso storico’ e in un lampo abbiamo davanti la misura politica che manca oggi al Paese. Parlare di ‘popolo’ senza unità popolare è una specie di presa in giro. Ma pochi se ne accorgono.