In un’intervista rilasciata a Isabella Insovibile, L’antifascismo che non muore, Vittorio Foa, uno dei padri della Repubblica, partigiano di Giustizia e Libertà, ad un certo punto ha spiegato: “A me è capitato, una volta, di partecipare a una trasmissione televisiva insieme ad un senatore fascista [Giorgio Pisanò, parlamentare dell’Msi, volontario nella Xª Mas] che faceva dei grandi discorsi di pacificazione: «In fondo eravamo tutti patrioti… Ognuno di noi aveva la patria nel suo cuore… », ecc. ecc. Io lo interruppi dicendo: «Un momento. Se si parla di morti, va bene. I morti sono morti: rispettiamoli tutti. Ma se si parla di quando erano vivi, erano diversi. Se aveste vinto voi, io sarei ancora in prigione. Siccome abbiamo vinto noi, tu sei senatore». Questa è una differenza capitale”. Ecco: qui è detto tutto.
Sono passati 73 anni dalla fine della seconda guerra mondiale. Un tempo ancora sottoposto a contese, tutt’altro che pacificato. Fondato, tuttavia, su fatti che continuano a raccontarci quanto è realmente accaduto, nel nostro Paese, dalla fine del 1922, in Germania dall’inizio del 1933, sino all’agghiacciante contabilità, nel 1945, dei lutti e delle rovine. All’orrore dell’Olocausto perseguito dal nazismo. A seguito delle Leggi razziali del 1938 anche il nostro paese ha vissuto un tempo di barbarie. Il fascismo ha significato una società e uno Stato piegati al partito unico, in un dispotismo che ha trascinato il Paese in una guerra di aggressione.
C’è una piccola storia, a Bologna, a me particolarmente cara. Il 7 novembre 1944 si svolse la battaglia di Porta Lame. Il più importante scontro a fuoco tra partigiani e occupanti tedeschi, in un contesto urbano, durante la seconda guerra mondiale. In memoria di quei fatti Luciano Minguzzi, nel 1947, ha realizzato due sculture, I partigiani, un ragazzo e una ragazza, oggi sul prato antistante Porta Lame. Le sagome forgiate con il bronzo fuso dalla statua equestre di Benito Mussolini collocata nello Stadio, denominato dal regime “Littoriale”, a loro volta ricavate dai cannoni sottratti agli Austriaci durante i moti risorgimentali nel 1848. Il bronzo dei cannoni austriaci e poi del dittatore usato per un’opera destinata a celebrare la lotta per la libertà. Dovremmo rileggere il messaggio della Resistenza nel destino di quel bronzo. Da un lato la contrapposizione tra due concezioni del mondo. Dall’altro il progetto di una riconquistata dignità.
Stabilire tra gli eventi storici opportune relazioni non autorizza alcun relativismo. Da un lato il regime fascista, in finale di partita risucchiato nel baratro hitleriano. Dall’altro l’antifascismo: laici e cattolici, comunisti, socialisti, azionisti, liberali, repubblicani, anche monarchici. Le distinzioni non negano il senso di appartenenza alla stessa vicenda nazionale: ci aiutano a guardare avanti con piena coscienza di una doverosa distinzione delle responsabilità. Nello stesso tempo occorre considerare chi lottò per la liberazione come quella parte di giovani che seppero collocarsi dalla parte giusta contro l’indifferenza colpevole o il cinismo dell’attesa. Adoperandosi, in tal modo, per la libertà di tutti, anche di chi allora e in parte successivamente si è posto dall’altra parte. A fondamento di qualcosa che, dal 1° gennaio 1948, è in Costituzione, a disposizione di tutti. La Resistenza ha significato, fattualmente, l’ingresso del nostro Paese nello Stato di diritto. Anche per questo non possiamo non dirci antifascisti: radicati nella memoria ancora viva di quel che è drammaticamente accaduto, dalla strage di Marzabotto sino al sacrificio di figure come Irma Bandiera, partigiana medaglia d’oro al valor militare, recentemente ricordata, a Montecitorio, dalla presidente della Camera.
Non a caso la Costituzione ripudia due cose: la guerra e il fascismo. Articolo 11 e XII Disposizione transitoria (sulla quale poggiano le leggi Scelba e Mancino). Ora non bisogna confondere il diritto di pensiero e di parola, garantiti a tutti, col divieto di apologia del fascismo, che esclude la possibilità di richiamarsi al totalitarismo di destra. Non c’è contraddizione: le due questioni si tengono; sono intimamente connesse; fissano un legame indissolubile. Su questo: nessun timore, nessuna soggezione, nessun cedimento. Il fascismo approdò al potere con la violenza dello squadrismo, a seguito della marcia su Roma del 28 ottobre 1922 anche a causa di uno Stato liberale imbelle. Il 28 ottobre 2017 dev’essere un’altra storia, a partire dal comportamento responsabile, legittimo, ma fermo, dello Stato democratico.
Sicché a proposito dell’annunciata intenzione di inscenare a Roma una rievocazione della marcia su Roma, non possono esserci dubbi: si tratta di un’evidente, inaccettabile apologia. Lo scorso 8 settembre 2017 il capo della Polizia, Franco Gabrielli, ha affermato: “La marcia su Roma non si farà” (su “la Repubblica” on line). Sul “Corriere della Sera” di domenica 1° ottobre, in un’intervista di Aldo Cazzullo, il ministro dell’Interno Marco Minniti, a sua volta, ha ribadito: “una manifestazione che si richiama alla marcia su Roma e al 28 ottobre per me non si può fare”. Ora c’è solo da attendersi che alle parole seguano, nel modo più coerente, i fatti.