Dunkirk di Christopher Nolan è uscito negli Usa il 21 luglio; in Italia il 31 agosto. Questa non è una recensione fuori tempo massimo; piuttosto, una piccola riflessione, in parte sul film, in parte sul dibattito che il film ha suscitato da noi. A partire dalla stroncatura di Goffredo Fofi, su “Internazionale”, non senza il brillio di un’astuzia della ragione, in considerazione della data, l’8 settembre; titolo: Le false emozioni di Dunkirk. A seguire, una scandalizzata levata di scudi comprensiva di mozioni degli affetti e rappel à l’ordre sui valori occidentali variamente assortiti. A falange disposti a difesa del film, senza che il film di Nolan ne abbia alcun bisogno. Più in ordine sparso in relazione allo statuto della critica, la quale non dovrebbe seguire altro che il gusto, più o meno fondato, di chi scrive, non trattandosi di verità assoluta, ma di un punto di vista, soggettivo, il quale non può che essere libero.
Ciò che un’opera provoca le appartiene. Nella cassetta degli attrezzi della critica da qualche parte dovrebbe esserci anche l’istituto della stroncatura, per quanto poco frequentata, la quale, all’occorrenza, è preferibile, se motivata e argomentata, alla melassa compiacente e conformista. Dovremmo abituarci a pensare che l’opinione contraria non è lesa maestà: ma uno dei modi possibili, forse uno dei più degni, di considerare un lavoro creativo. La scarsa attitudine a prenderne atto è un’ulteriore conferma del prevalente atteggiamento benpensante, il che non può che contribuire a rendere più simpatica la figura controcorrente di Fofi, la cui presa di posizione dimostra, ove ce ne fosse bisogno, che si può criticare un film importante, come in questo caso, addirittura coronato da un successo planetario. Con risultati record al botteghino: si parla di oltre 500 milioni di dollari di incassi. Budget di partenza: 100 milioni.
Ma veniamo al film. 1940 tra il 26 maggio e il 3 giugno. A seguito dell’invasione della Francia da parte della Germania, sulla spiaggia di Dunkirk (Dunkerque in francese; il titolo originale in inglese è stato mantenuto nella versione italiana) alcune centinaia di migliaia di soldati si trovano accerchiati dalla Wehrmacht, schiacciati contro il litorale, tra la spiaggia e il canale della Manica. Bersagli immobili, colpiti da terra, dal cielo, dal mare, senza scampo. Costretti a tentare una rischiosa operazione di ripiegamento. L’evacuazione coinvolge anche imbarcazioni civili. Nolan fa racconto di questo. Come avrebbe detto Gérard Genette, con linguaggio per addetti ai lavori, un intarsio di analessi e di prolessi, cioè, più semplicemente, un movimento in avanti e indietro, a zig-zag. L’intreccio di tre linee narrative: la terraferma nell’arco di una settimana; il mare nell’arco di un giorno; il cielo in quello di un’ora. Un incessante angosciante avanzamento e ripiegamento. Solo alla fine, quando i tre fili temporali si raccordano, vediamo, per la prima volta, il nemico sino ad allora invisibile e innominato, i tedeschi, in un’apparizione fantasmatica, quando il pilota Farrier atterra sulla spiaggia deserta, dà fuoco all’aereo e viene catturato; interpretato da Tom Hardy, già attor unico o unico attore, in Locke, scritto e diretto da Steven Knight.
Nel film di Nolan la tragedia è dispiegata; ma come affidata alle tecnicalità degli ordigni; con ciò facendo spettacolo della guerra. Una densa, fitta, impietosa teoria di divise, gradi, elmetti, navi, aerei, mortai, cannoni, missili, bombe, contraeree, blindati, mitragliatrici, fucili, pistole. In attesa di una salvezza che non arriva. C’è qualcosa di kafkiano, nel senso appropriato dell’attesa di una sentenza tanto infausta quanto risolutiva di una condizione disperante. All’inizio un drappello della British Army è fatto segno del fuoco tedesco tra le strade di Dunkerque, i posti di blocco e i sacchi di sabbia che i francesi hanno predisposto: dopo una corsa rocambolesca a perdifiato si salva solo Tommy (Fionn Whitehead). Sulla spiaggia incontra un altro soldato che ha appena sottratto gli scarponi ad un caduto, entrambi si fingono infermieri, trasportando in barella un ferito, per recarsi alla nave ospedale, provando a imbarcarsi. Vengono fatti scendere; sicché decidono di nascondersi sotto il molo, in modo da poter salire di nascosto a bordo della prossima nave.
Intanto i granatieri sono schierati ordinatamente in fila ai moli, per scendere sulle navi che non arrivano e, quando arrivano, sono bersaglio della Luftwaffe. La guerra è rappresentata con crudo disincanto. I combattimenti, lassù, tra le nuvole, i piloti travisati dall’equipaggiamento come uomini mascherati, accecati dal sole. Gli uni a caccia degli altri. Destinati a precipitare come uccelli che si avvitano sulle ali. O ad ammarare, per tentare di salvarsi, un istante prima d’essere inghiottiti dal mare. Ovunque, l’inferno. L’acqua a sorreggere le navi o a fagocitarle in pochi istanti. Per certi versi Nolan racconta la fuga dalla guerra. Quindi il sentirsi in trappola, profughi predestinati. Ad un certo punto, quando una nave affonda, per le bombe sganciate dagli aerei che solcano un cielo plumbeo, e comincia a perdere carburante, i volti dei superstiti appaiono macchiati, anneriti, vengono accolti sulla piccola imbarcazione del signor Dawson (Mark Rylance) e, per un istante, sembra di rivedere le immagini delle carrette del Mediterraneo, dalla Libia a Lampedusa, cariche di giovani di colore.
Il signor Dawson viaggia insieme al figlio Peter e ad un amico del figlio, George, che cade e batte violentemente la testa per l’urto ricevuto in una colluttazione da un soldato recuperato in mare (Cillian Murphy) mentre, stordito, sotto choc, se ne stava, immobile, seduto sulla chiglia capovolta di una nave, unico sopravvissuto ad un attacco di U-Boot. In seguito, Peter mostra al padre un articolo di giornale in cui George viene riconosciuto come un eroe. Tutto questo fa di Dunkirk un film apologetico non tanto della guerra quanto di coloro che, nel conflitto, sono schierati dalla parte giusta, le forze anti-hitleriane, Gran Bretagna e Francia. Non senza una certa enfasi posta sulla figura di Winston Churchill, come si evince non solo dalle parole che si scambiano il generale Bolton (Kenneth Branagh) e il colonnello Winnant (James D’Arcy). Alla fine, i soldati evacuati, circa trecentomila, sono dieci volte le previsioni iniziali. Nel cast l’ottimo Mark Rylance, memorabile nel ruolo della spia russa, Vilyam Fisher, ne Il ponte delle spie di Steven Spielberg; un’intepretazione che gli ha meritatamente fatto ottenere l’Oscar come miglior attore non protagonista lo scorso anno. E’ lui il simbolo del soccorso e dell’accoglienza, della pacata ragionevolezza e della condivisione di una speranza capace di guardare oltre la tragedia verso l’agognato nostos, il ritorno a casa, alla normalità e alla pace. E’ lui che rappresenta il cinema come relazione di gesti e di caratteri, di volti e di sguardi, in senso drammaturgicamente vissuto, quel cinema cui, sotto il ritmo della musica di Hans Zimmer, il film di Nolan, in parte, sembra rinunciare.