Riaprono le scuole e, come ogni anno, riparte il dibattito sulla bontà o meno delle riforme che hanno interessato questo mondo ormai sfiancato dalla “riformite” dei governi succedutisi negli ultimi vent’anni. Tralasciando alcune proposte della ministra Fedeli, come ad esempio quella di ridurre il ciclo delle scuole medie a soli due anni, l’ultima polemica in ordine di tempo riguarda il numero chiuso, in seguito ad una storica sentenza del TAR del Lazio che ha bocciato il medesimo per quanto concerne le facoltà umanistiche della Statale di Milano (la quale peraltro ha rinunciato a far ricorso al Consiglio di Stato), costituendo un precedente molto importante.
Ebbene, lo dico sin da quando ero studente, il numero chiuso si discosta non poco dallo spirito della nostra Costituzione e, in particolare, dell’articolo 34, il quale prevede la libertà d’accesso all’istruzione.
Molti obiettano che, abolendolo, diventerebbe impossibile quel processo di selezione che pure è indispensabile se non si vuole correre il rischio di attribuire un prestigioso titolo di studio a persone che non lo meritano. Peccato che sia un falso problema, in quanto semmai il dramma degli atenei italiani è esattamente l’opposto e cioè che sempre meno studenti vi si iscrivono e sempre meno di essi giungono al conseguimento della laurea. Colpa dei costi esorbitanti e della mancanza di borse di studio adeguate, certo, ma anche tutti questi ostacoli ulteriori non costituiscono certo un incentivo a studiare, a impegnarsi e a mettercela tutta per tentare di riattivare quell’ascensore sociale che solo potrebbe consentire al nostro Paese di ripartire.
A tal proposito, i punti su cui è urgente intervenire sono due, oltre al sempre cruciale aspetto economico: l’orientamento scolastico e universitario e la revisione dei cicli.
Poiché la scuola costituisce un’architettura complessa e da valutare nel suo insieme, in quanto accompagna i nostri ragazzi dalla più tenera infanzia alla maggiore età e oltre, non si può pensare di intervenire su un singolo aspetto senza armonizzare gli altri.
Pertanto, tenendo fermi i cinque anni delle elementari, bisognerebbe innanzitutto rivedere il concetto di autonomia scolastica introdotto dalla riforma Berlinguer e poi riorganizzare i cicli. Tre anni di medie, infatti, espongono i ragazzi alla scelta del liceo all’età di tredici-quattordici anni, esponendoli al rischio di sbagliare indirizzo, favorendo così quella piaga che è l’abbandono scolastico. Non c’è dubbio che un anno in più di maturità, in quella fascia d’età, possa essere benefico, anche al fine di consentire una decisione più autonoma da parte degli alunni, riducendo l’inevitabile condizionamento ad opera delle famiglie. A questo primo effetto positivo, si sommerebbe l’eliminazione di quel biennio iniziale di fatto, oggettivamente pleonastico, che impedisce, ad esempio, di studiare la letteratura italiana fin dal primo anno, ottenendo un liceo più snello e sensato nel quale non sarebbe assurdo, a quel punto, a partire dal secondo anno, favorire una maggiore personalizzazione dei programmi. Fatto salvo il doveroso eclettismo (altro valore aggiunto della nostra scuola) e la necessità di garantire un certo numero di ore per materia uguale per tutti gli allievi di un determinato indirizzo, infatti, bisogna altresì prendere atto che non siamo tutti uguali, non abbiamo tutti le stesse inclinazioni e che questo è assolutamente un bene, visto il bisogno di pluralismo e di complessità che caratterizza e caratterizzerà sempre di più la nostra società.
L’orientamento dei ragazzi alle prese con la scelta della facoltà universitaria, poi, è ancora più importante della decisione relativa al corso liceale, in quanto quello è davvero il momento in cui si costruisce la vita di una persona ed è necessario guardarsi dentro.
A tal proposito, parlo per conoscenza diretta di persone che hanno sbagliato facoltà e perso anni importanti di formazione e di lavoro, non bastano assolutamente le sporadiche visite presso questo o quell’ateneo bensì è indispensabile un lungo percorso di comprensione di sé, delle proprie potenzialità, dei propri limiti e dei propri interessi, onde evitare che sorgano, sul percorso di una personalità in formazione, ostacoli poi difficilmente sormontabili.
Un anno uguale per tutti, un numero di ore standard per materia, anche a seconda dei vari indirizzi, e poi la possibilità di definire un percorso autonomo che agevoli i ragazzi nella comprensione di chi sono e di cosa vogliono diventare nella vita: per il nostro liceo sarebbe senz’altro un passo avanti.
Infine, un’università senza numero chiuso, più accogliente e vicina alle esigenze delle persone, in cui per tre sole facoltà (Medicina, Ingegneria e Architettura) sia previsto un congruo numero di esami propedeutici da dare entro il primo anno, senza i quali non sia possibile andare avanti, prevedendo tuttavia una piccola deroga di sei mesi in caso di gravi malattie o lutti personali e familiari.
A ciò si aggiunga l’eliminazione del fallimentare 3 più 2 introdotto sempre da Berlinguer, il ripristino del vecchio ordinamento, con annessa durata dei corsi, una riduzione drastica dei costi degli atenei e un forte investimento pubblico sotto forma di borse di studio e agevolazioni fiscali per le famiglie, seguendo la rotta indicata da Bernie Sanders.
Se vogliamo tornare a parlare alle giovani generazioni, umiliate dalla crisi e da un precariato divenuto ormai esistenziale, questo potrebbe essere un primo passo.