L’11 settembre è il giorno in cui il sistema di difesa globale, successivo alla caduta del Muro di Berlino, si è improvvisamente scoperto vulnerabile. Gli aerei sulle Twin Towers come proiettili. Le pareti d’acciaio, vetro e cemento che si avvitano nella polvere sulle rovine. In diretta Tv. Mentre le vittime si gettano nel vuoto, preferendo la morte alla disperazione. L’istantanea dell’orrore. Ground Zero. Poi la coalizione internazionale in Afghanistan, sotto l’egida dell’Onu, iniziata il 7 ottobre 2001, a cui, da allora, partecipa il nostro Paese, non senza un contributo significativo, in termini di mezzi, e, purtroppo, di vittime tra i nostri militari.
Ma l’11 settembre è diventato anche altro, un presagio di ciò che può sempre di nuovo ripetersi, per quanto in forme diverse. Da allora un tir, un camion, un furgone, possono essere usati come un’arma scagliata contro persone ignare e innocenti. A Nizza, il 14 luglio dello scorso anno, un tir, nella ricorrenza della rivoluzione francese. A Barcellona, il 17 agosto di quest’anno, un van lanciato sulla Rambla, guidato dal ventiduenne Younes Abouyaaqoub, poi individuato e ucciso il 21 agosto. Le indagini hanno fatto emergere un piano, fortunatamente non riuscito, con una palazzina rasa al suolo dallo scoppio accidentale di un centinaio di bombole di gas. A seguire altri micro-attentati, a Bruxelles e a Londra.
In un punto d’Europa, nella circostanza, Barcellona, vittime di diverse nazionalità: sei spagnoli, tre italiani, due portoghesi, una belga, uno statunitense, un canadese, un australiano. Il bersaglio, attraverso quelle morti, qualcosa di prossimo a ciò che siamo, come società, con i nostri stili di vita. Non un mondo perfetto, tutt’altro, pieno di limiti e contraddizioni. Ma animato dalla speranza di essere e di rimanere inclusivo. Ulrich Beck ha acutamente raccontato l’emergere della Risk Society.
Pensiamo ad Andreas Lubitz, il pilota del volo Barcellona-Düsseldorf, assassino e suicida, autore, il 24 marzo 2015, di una strage con 149 vittime. Non un terrorista. Almeno non in senso classico. Ma gli effetti del suo gesto non sono stati meno devastanti. Senza neppure la motivazione di una causa, per quanto aberrante. Si parla di un mondo segnato dal disturbo psichico (ne ha scritto qui il 19 agosto Maurizio Montanari), di un drop out educativo e sociale, di un nichilismo sociale che, a un certo punto, prende la strada della radicalizzazione, ovvero di un’islamizzazione della radicalità. Con messaggi veicolati attraverso la rete e più nell’ambiente della marginalità sociale che delle moschee. Un terrore diffuso e molecolare. Il franchising del terrore. Unito all’autoinganno del martirio.
Jean-Luc Marret ha curato, tra l’altro, il libro Les fabriques du jihad. Intervistato da Le Monde ha spiegato il groviglio, sociale e psicologico, del fenomeno della radicalizzazione. Una miscela di frustrazioni, forme di devianza, criminalità, piccola o grande poco importa, non senza esperienze di detenzione, che, a un certo punto, porta alcuni soggetti, in genere giovani, figli o nipoti d’immigrati, talvolta in rottura con la struttura familiare di origine, ad affidarsi al fondamentalismo in forme violente, distruttive e autodistruttive. Nessuna guerra di religione. Piuttosto la strumentalizzazione della fede usata come pretesto. Pare che in Francia, a seguito di quanto è accaduto a Parigi e a Nizza, sia stato sperimentato un intervento coordinato, coinvolgendo autorità religiose islamiche, psicologi e criminologi, rivolto a una platea di giovani detenuti a rischio, a seguito del quale una buona percentuale di essi si sarebbe allontanata dall’ideologia jihadista.
E’ del tutto evidente che, per la sicurezza in Europa, la prevenzione è fondamentale e che bisogna promuoverla perché si interrompa definitivamente la spirale della ferocia stragista di matrice islamica. Anche qui un filo che tiene insieme un pezzo della storia di questi ultimi 16 anni a partire dall’11 settembre. Si pensa che le nuove forme del terrore siano animate da una concezione arcaica della violenza; eppure il loro humus è, non solo, ma soprattutto, nel web.
Cercano obiettivi che diano risonanza sapendo benissimo che l’informazione è predisposta a dare loro risonanza. E forse i media, quando danno alle loro gesta più visibilità che alla caduta di Mosul, rischiano, involontariamente, di fare il loro gioco. Il crimine, tanto più è terribile, tanto più produce come un’ipnosi collettiva, un annebbiamento per cui, dopo il massacro, non si pensa ad altro, non senza un profluvio di parole non sempre pertinenti, non sempre appropriate. Poi intervengono oblio e silenzio. Sino alla prossima strage.
Ma Internet può essere una risorsa anche per contrastarli. Il comportamento delle forze dell’ordine in alcune occasioni lo ha dimostrato. Non solo attraverso il controllo investigativo. La polizia bavarese, per esempio, in occasione della tragica vicenda di Ali Sonboly – il diciottenne di origine iraniana, artefice, poco prima delle 18 del 22 luglio 2016, di una sparatoria presso il centro commerciale Olympia di Monaco di Baviera, con nove morti, di cui cinque minorenni, emulo del neonazista Anders Breivik che, il 22 luglio 2011, uccise 77 giovani laburisti – ha optato per la massima interlocuzione possibile con la popolazione attraverso i social media. Anche le manifestazioni di solidarietà, in quella circostanza, hanno avuto questo segno interattivo, come #offenetür, cioè #portaperta, veicolate grazie a privati cittadini, alle chiese e, significativamente, alle moschee. Un comportamento che può favorire l’emergere di una nuova responsabilità sociale, civile e interreligiosa.
Dobbiamo vincere questa nuova forma di terrorismo senza depauperare la qualità della nostra democrazia. E’ importante che la risposta sia composta. Poche semplici e ferme parole, come a Barcellona, in catalano, No tinc por (“Non ho paura”). Sino alla manifestazione lì promossa dalla comunità musulmana contro il terrorismo, perché un sempre maggior numero di persone delle diverse professioni religiose possa dire: No en el meu nome (“Non in mio nome”). E’ essenziale che non si verifichi un contrasto tra quel che è necessario fare e l’eredità dell’impianto normativo democratico.
L’Italia con il resto d’Europa ha davanti a sé un nuovo pericolo; ma ha anche le risorse per batterlo; alle spalle gli anni di piombo durante i quali la nostra democrazia ha saputo far fronte alla sfida. E’ importante saper mantenere il senso delle distinzioni. Non confondere terrorismo e Islam; Islam e musulmani; o peggio Islam, immigrazione e terrorismo. E’ fondamentale che le comunità islamiche comprendano come anche per loro valga l’esigenza di separare nettamente la civiltà, pur nella diversità delle culture, dalla barbarie: e che tanto più sapranno levare la loro voce di condanna tanto più l’integrazione potrà fare passi avanti.
Gli aerei abbattuti sulle Torri Gemelle l’11 settembre 2001, sventrandole, sbriciolandole, facendole collassare, con la gente che si gettava nel vuoto piuttosto che rimanere inghiottita nell’inferno, sono stati l’inizio di qualcosa che da Al Qaeda a Daesh segna dolorosamente il nostro tempo, costringendoci a comprendere come la sicurezza, sia quella interna sia quella internazionale, costituiscano un nodo indissolubile.