Trigilia: “La sinistra ritrovi la strada dello sviluppo inclusivo”

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L’intervista di Maria Elena Camarda con l’ex ministro Carlo Trigilia è sull’ultimo numero della rivista dell’AREL (diretta da Mariantonietta Colimberti) dedicato al tema “Normalità”, acquistabile sul sito www.arel.it. Da oggi anche nelle principali Librerie Feltrinelli.

 

Il divorzio tra crescita economica e coesione sociale nelle democrazie avanzate è una “normalità inevitabile”? Per quali motivi appare sempre più difficile per i partiti di sinistra dare capacità di rappresentanza ai gruppi sociali più deboli e quindi ridurre le disuguaglianze? In questa intervista Carlo Trigilia, sociologo ed ex ministro per la Coesione Territoriale, analizza le dinamiche delle trasformazioni economiche e socioculturali e approfondisce le questioni legate alla crisi dei partiti e ai modelli istituzionali delle nostre democrazie, mettendo in discussione la “logica maggioritaria” dell’“uomo solo al comando”.

Negli ultimi decenni si è incrinato sempre di più quell’equilibrio tra sviluppo economico e riduzione delle disuguaglianze sociali che ha caratterizzato in passato le democrazie dei paesi avanzati. I governi di sinistra, stretti da molteplici vincoli, hanno incontrato sempre più difficoltà a disegnare politiche efficaci. Ritiene si siano create le premesse per una nuova “normalità” che considera inevitabile il divorzio tra crescita economica e coesione sociale?

Senza dubbio le condizioni che avevano sostenuto lo sviluppo inclusivo post-bellico sono cambiate, portando a una riduzione delle capacità di rappresentanza dei gruppi sociali ed economici più deboli. Possiamo solo accennare alle ragioni, che sono varie e molto complesse. Riguardano anzitutto la frammentazione delle vecchie classi sociali, la differenziazione degli interessi alimentata dalle nuove forme di organizzazione economica e dallo sviluppo tecnologico. Non c’è più quel mondo sociale relativamente omogeneo della classe operaia e dei salariati in genere che si identificava quasi naturalmente con le forze politiche di sinistra. Occorre poi considerare i processi di individualizzazione crescente sul piano culturale, che hanno contribuito anch’essi a indebolire le tradizionali forme di azione collettiva e di partecipazione politica. Ne è derivato il declino dei partiti organizzati, specie di quelli socialisti (ma non solo), e anche delle organizzazioni di rappresentanza degli interessi come i sindacati e le associazioni imprenditoriali. La globalizzazione ha avuto, inoltre, un ruolo cruciale da vari punti di vista. Ha indebolito la classe operaia nei paesi più sviluppati a seguito dei processi di delocalizzazione produttiva; ha anche posto ostacoli crescenti all’azione dei governi (in particolare quelli a guida socialdemocratica) rendendo più difficili politiche sociali estese e incisive e la regolazione dei rapporti di lavoro e delle relazioni industriali più vincolante per le imprese. Nel complesso questi processi, che hanno influito dal lato dell’input della politica – cioè della formazione del consenso e della decisione politica – e dal lato dell’output – cioè delle politiche dell’intervento pubblico – possono essere considerati responsabili di quella riduzione della capacità di rappresentanza, di cui dicevo prima, e dell’ampliamento delle disuguaglianze. Il risultato è che la divaricazione tra crescita economica e coesione sociale viene sempre più considerata come “normale”.

Mi sembra di capire che per lei questa “normalità” dello sviluppo non inclusivo non sia da ritenersi irreversibile.

No, non credo sia irreversibile. Tuttavia, ritengo che per rimetterla in discussione occorra misurarsi criticamente con l’idea diffusa che il miglioramento delle capacità di governo delle democrazie avanzate possa venire solo da un rafforzamento della logica maggioritaria: è un’altra delle “normalità” che ci riguarda da vicino e che, questa volta, investe la via istituzionale da scegliere per rafforzare lo sviluppo e la democrazia.

Che cosa intende più specificamente per logica maggioritaria?

Non mi riferisco tanto e solo alla predilezione sempre più diffusa per sistemi elettorali di tipo maggioritario, ma soprattutto al fatto che si ritiene di potere rispondere agli effetti complessi della modernizzazione socio-culturale solo con l’introduzione generalizzata nella grammatica politica e istituzionale del principio the winner takes it all, chi vince prende tutto e governa senza reti e mediazioni. L’estensione del principio dell’“uomo solo al comando” a logica generale di funzionamento della politica e delle istituzioni, punta al rafforzamento dei governi rispetto ai parlamenti, del premier rispetto ai ministri, dei leader rispetto ai loro partiti; punta al drastico ridimensionamento dei partiti e con essi anche delle organizzazioni di rappresentanza degli interessi ritenute di ostacolo per la governabilità nell’interesse della collettività.

Perché a suo avviso è da valutare criticamente la convinzione che vede nella democrazia maggioritaria la via più rapida per aumentare le capacità decisionali dei governi? In fondo una migliore capacità di fare scelte e di agire è uno strumento essenziale di fronte alle sfide da affrontare per uscire da quelle difficoltà che lo sviluppo inclusivo sta incontrando sempre più nei paesi avanzati.

Ritengo che la democrazia maggioritaria vada considerata criticamente, ma non per le ragioni che normalmente vengono avanzate. O meglio non solo per queste. Le democrazie maggioritarie sono, infatti, spesso criticate per le limitazioni che esse potrebbero comportare al controllo democratico esercitato su chi governa, come si è ben visto in Italia nel corso del dibattito che ha preceduto il referendum sulle modifiche costituzionali. Ma in genere la logica maggioritaria non mette in discussione i principi fondamentali della democrazia rappresentativa: l’idea che i governanti devono “rendere conto” periodicamente del loro operato ai cittadini-elettori attraverso libere elezioni realmente competitive. È vero poi che nelle democrazie maggioritarie i cittadini votano direttamente per un governo e che aumenta la velocità e la capacità decisionale. Si trascura però la tendenza che esse anche hanno a favorire di fatto maggiormente un capitalismo di tipo liberistico che dà più spazio al mercato e riduce l’intervento regolativo e redistributivo dello Stato. È questo il punto che vorrei sottolineare. Mi sembra che i sostenitori italiani della democrazia maggioritaria, anche quelli più avveduti, non si siano soffermati sufficientemente su questi aspetti.

In alcuni suoi recenti scritti apparsi su «Stato e Mercato» e su «il Mulino» lei ha formulato questa sua valutazione delle democrazie maggioritarie. Può chiarire perché la “via maggioritaria” renderebbe più difficile uno sviluppo che coniughi crescita economica e riduzione delle diseguaglianze?

Mi sembra vi sia una stretta relazione tra le forme adottate di regolazione dell’economia e della società e l’assetto del sistema politico, evidenziata da una vasta letteratura di political economy comparata sulla “varietà dei capitalismi”. Nei paesi di democrazia maggioritaria tende a svilupparsi la variante liberistica del capitalismo; quel capitalismo che è caratterizzato da elevato dinamismo economico e occupazionale, ma da altrettanto elevate e crescenti disuguaglianze. Queste sono dovute principalmente all’indebolimento, fino all’irrilevanza, delle organizzazioni sindacali e delle relazioni industriali e al ridimensionamento, o comunque al ruolo più marginale, del welfare. Questo accade perché il sistema elettorale di tipo maggioritario, al di là delle varianti tecniche, spinge i partiti a strutturare la propria offerta in modo da ricercare e ottenere la maggioranza dei voti. E ciò vuol dire cercare di conquistare il voto cruciale dell’elettorato centrale di ceto medio. Di conseguenza, cresce ancor di più in questi contesti la tendenza all’indistinzione programmatica e incontrano più difficoltà le politiche di redistribuzione a favore dei gruppi più deboli – con i risvolti in termini di maggiore tassazione. Esse sono infatti osteggiate dall’elettorato decisivo di ceto medio che ha più mezzi per influire autonomamente sulle proprie condizioni di vita. I gruppi economicamente e socialmente più deboli tendono quindi a essere sotto-rappresentati e a rifugiarsi nell’astensione (che è più alta) o nel populismo. I partiti politici sono qui ancor più indeboliti, spesso attraverso il ruolo delle primarie, e comunque risentono di una spinta ancora maggiore che altrove verso la personalizzazione della leadership e un ruolo politico sempre più rilevante dei media. L’enfatizzazione di aspetti relativi all’immagine del candidato, rispetto ai programmi, è d’altra parte sollecitata anche dalla necessità di raccogliere consensi di interessi molto differenziati. Da qui la rilevanza maggiore dei candidati, che pure è una tendenza più generale nelle democrazie avanzate, fortemente sollecitata dal ruolo assunto dai media nella comunicazione politica. In definitiva, le democrazie di tipo maggioritario enfatizzano maggiormente quella tendenza a ridurre la capacità di rappresentanza dei gruppi sociali più deboli che – come dicevo – caratterizza in generale le democrazie contemporanee.

Sembra di capire che a suo avviso ci sia ancora spazio per dei tipi di democrazia che danno maggiore capacità di rappresentanza ai gruppi meno privilegiati e quindi favoriscono lo sviluppo inclusivo.

I tipi di democrazia definibili “democrazie di tipo consensuale” – diffuse soprattutto nell’Europa Centro-Settentrionale, nei Paesi Scandinavi, in Germania – ancora funzionano e producono politiche capaci di sostenere una crescita più inclusiva. Coalizioni e governi di larghe intese non operano qui peggio degli assetti maggioritari, nonostante la maggiore complessità del processo decisionale. Il sistema elettorale riflette un orientamento più proporzionale, con varie forme di correzione, che favorisce un assetto multipartitico. Questa condizione è particolarmente rilevante per le forze di centro-sinistra che, senza sposare una vocazione minoritaria, sono però meno condizionate nella propria offerta politica dalla competizione al centro, e possono dare maggior peso agli interessi dei gruppi sociali più deboli, puntando alla costruzione di coalizioni vincenti con altri partiti (partiti di centro, ecologisti, o di sinistra radicale). Dal punto di vista della composizione dei governi, ciò porta più frequentemente a governi di coalizione o anche a governi di minoranza. Non sono rare inoltre le esperienze di larga coalizione che comprendono tutte le principali forze politiche. In questo quadro, molto importante per governare è poi l’intesa con le principali forze sociali, imprenditoriali e sindacali (questi sono i paesi del neo-corporativismo e della concertazione che funziona). La personalizzazione della leadership è meno spinta, i partiti restano più strutturati, i programmi contano di più. L’astensione è più bassa, anche se negli ultimi anni è salita. Il risultato in termini di politiche è un assetto regolativo che tende a promuovere un’economia di mercato più coordinata, capace di crescita inclusiva, con minori disuguaglianze sociali.

In genere si dice che sono in crisi anche le socialdemocrazie. Allora, com’è possibile questo risultato?

È possibile perché il sistema politico tende a dare più chances di rappresentanza agli interessi dei gruppi più deboli. La democrazia consensuale, anche attraverso la concertazione delle politiche, dà più spazio a tali interessi. Inoltre, viene sostenuto il ruolo delle relazioni industriali come meccanismo redistributivo solidaristico, e persiste un sistema di welfare esteso. Tutto ciò ha ovviamente dei costi, sia in termini di costo del lavoro per le imprese che di tassazione per il finanziamento del welfare. Il tentativo fatto dalle forze di sinistra in questi contesti è stato quello di cercare strumenti e aggiustamenti per rendere più sopportabili questi costi. Costi che tendono a generare difficoltà crescenti per le imprese, specie in una situazione di globalizzazione. Certo, si può parlare di difficoltà o di crisi delle socialdemocrazie, ma spesso lo si fa in modo acritico – specie nel nostro dibattito pubblico – senza una riflessione attenta a queste esperienze, e a volte con l’obiettivo di convincere che è inevitabile per la cultura di sinistra sposare la logica maggioritaria.

Quali sono questi strumenti di compensazione per le imprese che permettono di sostenere uno sviluppo più inclusivo?

In sostanza, la sinistra o, meglio, il centro-sinistra, nel contesto dell’Europa Centro-Settentrionale, ha cercato e sta cercando di ridefinire il modello socialdemocratico tradizionale, creando delle esternalità positive per le imprese e offrendo beni collettivi attraenti per i ceti medi in un quadro condiviso con le forze sociali, in particolare con i sindacati – di cui è incoraggiato il necessario cambiamento e la responsabilizzazione – ma anche con le principali forze politiche, anche di centro-destra. Le scelte operate dalla sinistra sono state orientate alla trasformazione in senso più partecipativo e corresponsabilizzante per i lavoratori delle relazioni industriali, realizzata con il coinvolgimento – e non con la delegittimazione – delle organizzazioni sindacali; alla flessibilizzazione del mercato del lavoro, accompagnata però da un’effettiva – e non solo promessa – maggiore sicurezza per i percorsi di lavoro più frammentati, e quindi da una trasformazione del welfare per venire incontro a i nuovi bisogni; e accompagnata ancora da un forte investimento in istruzione e capitale umano che si è affiancato a un altrettanto forte impegno in politiche per la ricerca, per l’innovazione e il trasferimento tecnologico. Naturalmente i problemi non mancano, oltre alle sfide della globalizzazione economica e della individualizzazione socio-culturale, quello che forse appare oggi come la minaccia più grande e più seria è la reazione populista al problema dell’immigrazione. Tuttavia, è evidente che il nesso esistente in questi paesi tra democrazia consensuale e crescita inclusiva, in contrasto con quello tra democrazia maggioritaria e crescita non inclusiva, è un tema che dovrebbe indurci a riflettere.

Ma questa sua analisi non tende a trascurare i costi di una democrazia consensuale: la complessità e la lunghezza del processo decisionale o anche la tendenza a far crescere la spesa pubblica senza controllo e ad alimentare maggiormente il debito pubblico?

Vantaggi e svantaggi, rischi e potenzialità positive si possono riscontare in entrambi i tipi di democrazia. Possiamo assumere che nelle democrazie maggioritarie aumentino capacità e velocità decisionale – come di solito si nota – ma si manifestano limiti alle possibilità di sostenere uno sviluppo più inclusivo per i motivi di cui dicevo prima. Dall’altra parte, le democrazie consensuali sono più lente nelle decisioni e possono degenerare in accordi particolaristici i cui costi si scaricano sulle generazioni future attraverso la crescita del debito. Ma come mostrano i paesi dell’Europa Centro-Settentrionale, la formula consensuale continua ad essere uno strumento che può anche permettere di prendere decisioni difficili riducendo la concorrenza tra partiti e responsabilizzando le forze sociali. Questo vuol dire che la logica istituzionale va verificata nelle sue condizioni di funzionamento effettivo legate al contesto in cui opera. Sappiamo da tempo che le stesse istituzioni formali possono funzionare in modo diverso a seconda delle infrastrutture socio-culturali, dell’etica pubblica e della cultura politica che influiscono su quella che da noi si chiama “costituzione materiale”. Ciò vale anche per le formule elettorali: quella proporzionale non è per esempio necessariamente così negativa come viene descritta nel nostro dibattito pubblico, ed è la formula tradizionalmente preferita dalle forze politiche di centro-sinistra in Europa (certo con eccezioni importanti come la Gran Bretagna e la Francia) per i motivi di cui dicevo. Un discorso simile si potrebbe fare per i partiti.

In effetti, la sua analisi tende a dare particolare rilievo al ruolo dei partiti. Non rischia di essere anacronistica dato il generale indebolimento dei partiti nelle democrazie contemporanee?

La crisi dei partiti tradizionali come partiti organizzati è del tutto evidente. Ovunque i partiti hanno perso iscritti e simpatizzanti; la sfiducia nei loro confronti è crescente. In generale, si tende dunque a ritenere che il partito in quanto tale sia divenuto uno strumento inservibile nei processi democratici. Ma dall’indebolimento dei partiti organizzati di massa a mio avviso non discende necessariamente che i partiti non siano uno strumento più utilizzabile nelle democrazie avanzate. O che lo siano solo come partiti di leader o partiti elettorali. È un verdetto troppo drastico che tende a dimenticare le differenze che permangono tra paesi (in Germania e nei Paesi Scandinavi, per esempio, continuano a esserci partiti strutturati, anche se non certo paragonabili ai partiti di massa di un tempo). In definitiva credo sia un errore trarre dalle tendenze di trasformazione dei partiti negli ultimi decenni una conclusione normativa troppo forte: non c’è futuro per i partiti se non come partiti di leader. Così si trascura come i partiti possano essere ancora importanti per la formazione e l’educazione politica, per selezionare una classe dirigente adeguata sulla base di progetti e di un’idea di società. Una democrazia senza partiti è indebolita sia dal lato dell’input – dei meccanismi della rappresentanza che lasciano inevitabilmente spazio a interessi particolaristici – sia dal lato dell’output, cioè dalla capacità di sostenere uno sviluppo inclusivo. Questa tendenza a svalutare il ruolo dei partiti è particolarmente marcata nel dibattito pubblico italiano, probabilmente in relazione alla forte degenerazione delle principali forze politiche della Prima Repubblica. Tuttavia, essa non appare giustificata e finisce col diventare, insieme all’acritica aspirazione al modello della democrazia maggioritaria, una parte del problema piuttosto che della soluzione.

Per quali motivi a suo avviso la via maggioritaria sarebbe meno adatta a un paese come l’Italia?

È bene distinguere, nel tentare una risposta, tra due piani. Il primo è quello dell’analisi sistemica, che riguarda le possibilità del nostro paese di assumere effettivamente una governance di tipo maggioritario. Il secondo piano riguarda l’opportunità per un orientamento di centro-sinistra di scegliere la logica maggioritaria. Comincio dalla prima questione. Ho accennato prima a due modelli di capitalismo. Un modello più liberista con democrazia maggioritaria, diffuso nel mondo anglosassone, e un modello di capitalismo più regolato con democrazia consensuale, presente soprattutto nell’Europa Centro-Settentrionale. Entrambi mostrano nel tempo segni di dinamismo economico e occupazionale, ma mentre il primo si caratterizza per un peso più rilevante e crescente delle disuguaglianze sociali, l’altro accompagna al dinamismo un grado sensibilmente minore di disuguaglianze, anche se in crescita negli ultimi anni. L’Italia – insieme ad altri paesi – in questo momento non si avvicina a nessuno dei due modelli prima ricordati: si trova in una situazione di crescita molto fragile e per di più con disuguaglianze sociali elevate e in aumento. Questa situazione, a sua volta, sembra riflettere un quadro politico-istituzionale “in mezzo al guado” tra democrazia consensuale (efficace), che in passato – salvo alcuni momenti di emergenza con esiti positivi – non si è mai consolidata, e il tentativo recente di imporre un assetto maggioritario, bloccato almeno per ora dall’esito del referendum dello scorso dicembre.

Ma che ostacoli incontrerebbe il tentativo di realizzare la via maggioritaria in un paese come il nostro?

Anzitutto, occorre tenere conto che l’Italia ha una cultura politica tradizionalmente meno omogenea di quella anglosassone, e qui lo spirito maggioritario rischia di essere fonte di ulteriori tensioni, come molti politologi, specie in passato, hanno sottolineato (non a caso la formula costituzionale ed elettorale scelta dai costituenti è andata in direzione della democrazia consensuale). Oggi le divisioni sono di tipo diverso da quelle del dopoguerra e sono più segnate dal diffondersi del populismo, ma sono ugualmente forti. Inoltre, abbiamo organizzazioni del lavoro ancora radicate, anche se molto divise e frenate nella loro capacità di proposta innovativa rispetto al modello dell’Europa Centro-Settentrionale: un peso consistente delle organizzazioni sindacali e un’elevata copertura della contrattazione collettiva non sono congruenti con la strada liberista (e in effetti un orientamento critico verso le organizzazioni sindacali e una spinta al loro ridimensionamento e a quello dei corpi intermedi si è chiaramente manifestato negli ultimi anni di governo). D’altra parte, la frammentazione della rappresentanza sindacale e imprenditoriale non favorisce un assetto da democrazia consensuale efficace. Come dicevo, ciò è accaduto solo in alcuni momenti di emergenza. Persistono poi ampie sacche di rendita elettoralmente potenti e inefficienze legate al settore pubblico che richiedono scelte impopolari e più apertura al mercato. Resta, anzi si è aggravata, una frattura storica come quella che riguarda il Mezzogiorno, di cui nessuno oggi parla più, neanche nel centro-sinistra. In questa situazione, che il paese possa riprendersi dalla grave crisi riuscendo a consolidare una democrazia maggioritaria non appare facile (indipendentemente dal giudizio di valore su questa formula istituzionale). Peggio, insistere su questa rotta potrebbe portare ad aggravare la situazione sul piano politico, economico e sociale. In altre parole, la configurazione del nostro paese farebbe propendere per tentare la strada di una democrazia consensuale efficace, forse meno difficile da raggiungere, ma che certo richiede una forte consapevolezza, un impegno e una strategia non schiacciata sulla ricerca di consenso a brevissimo.

Parlava però anche di un secondo piano di giudizio della via maggioritaria.

Sì, è quello che riguarda il giudizio di valore, cioè l’opportunità per un orientamento politico di centro-sinistra di puntare sulla via maggioritaria. Questa strada non è illegittima, non è incompatibile con la democrazia, ma va meglio valutata sulle conseguenze per l’obiettivo – che non può non essere proprio di una forza di centro-sinistra – di perseguire uno sviluppo inclusivo. Se si ritiene fondata l’idea che la via maggioritaria tende a entrare in contrasto con un aumento delle capacità di rappresentanza dei gruppi più deboli e quindi con politiche a sostegno dello sviluppo inclusivo, non si vede perché essa debba essere fatta propria dal centro-sinistra. Vorrei fare un esempio in proposito. È apparso di recente un importante contributo di Romano Prodi (Piano inclinato. Crescita senza uguaglianza). Nel suo libro-intervista Prodi chiarisce bene le origini della crescente disuguaglianza e i problemi che questo fenomeno pone, non solo per la democrazia politica, ma anche per la stessa economia di mercato, afflitta da difficoltà di consumo. E soprattutto offre una serie di proposte per un programma efficace di centro-sinistra che vanno nella direzione di un capitalismo regolato che ridia capacità di rappresentanza ai gruppi più deboli, sia sul piano delle relazioni industriali che su quello del welfare (incidentalmente, tali proposte appaiono anche lontane da ciò che il governo ha cercato di fare negli ultimi anni). Ma non dovremmo allora chiederci quale logica istituzionale potrebbe favorire un percorso in tale direzione? Se lo facessimo, ci troveremmo a dover rimettere in discussione molte credenze “normali” sugli effetti taumaturgici della via maggioritaria. Dovremmo riflettere sui rischi di leaderismo, di plebiscitarismo e insieme di populismo che ne discendono; e anche sull’indebolimento dei partiti derivante dalle primarie e da un sistema elettorale che si vorrebbe iper-maggioritario e che alimenterebbe l’illusione all’autosufficienza del Partito Democratico. Soprattutto occorrerebbe però riflettere sui vincoli di una governance maggioritaria che difficilmente potrebbe portare – ammesso che in Italia si riuscisse a attuarla coerentemente – a uno sviluppo più inclusivo.

Maria Elena Camarda

Sociologa, esperta di politiche della coesione e dello sviluppo territoriale. Fa parte della redazione della Rivista dell'Arel.