Esistono molte buone ragioni per invertire radicalmente il senso della politica pubblica della cultura condotta in Italia negli ultimi decenni. Il bene culturale ridotto a merce, la mercificazione della cultura, così il fenomeno è definito da una non più esigua letteratura, comporta l’espropriazione del patrimonio culturale pubblico da parte di interessi privati, secondo una logica che contraddice l’intima natura del bene stesso, sfigurato e piegato a servire scopi inopportuni che lo contraffanno e lo allontanano dalla fruizione che dovrebbe essergli propria. Prestare piazza di Spagna o Palazzo Vecchio per un défilé non è un atto innocente e senza conseguenze: significa ridurre un bene culturale di significato universale a fungere da rattrappita location d’un qualunque evento commerciale, subordinando il suo immenso valore d’uso culturale al misero valore di scambio della merce che vi si espone o che per suo mezzo si reclamizza. Come ben si comprende questa snaturante torsione è insopportabile e, soprattutto, è fatale: il bene culturale viene decontestualizzato, deprivato della propria specifica peculiarità, trasformato in una cornice, a uno fondo, in realtà fungibile, per le operazioni più spericolate. E il pubblico è sospinto una volta di più a scorgere in un sito, o in un monumento, una parte più o meno cospicua di quel “giacimento” culturale, di cui il nostro paese sarebbe ricchissimo, come una politica purtroppo annosa e pertinace si ostina a chiamare il nostro patrimonio artistico con infelicissima definizione. Un “giacimento” appunto da sfruttare a fini di lucro.
Né basta. Perché, come una metastasi maligna che dilaghi incontrollata, la mercificazione della cultura è pervasiva e produce effetti devastanti sul decoro dei centri storici delle cosiddette “città d’arte” ridotti a parchi a tema, a un uso della città nella quale tutto (o quasi) sia lecito pur di spremerne il valore commerciabile
Del resto, perché stupirsi quando è lo stesso concetto ingannevole, fuorviante e interessato di “città d’arte”, associato a quello di “giacimento culturale”, a favorire un utilizzo turistico dei siti che ne consuma letteralmente la consistenza materiale. La nuovissima trovata di istallare i tondelli a piazza San Marco per regolare l’afflusso dei visitatori è l’ultimo scempio proposto da una politica senza idee e che, soprattutto, non rinuncia ai suoi falsi e fallaci presupposti. Risalire questa china rovinosa non sarà facile. Eppure sembra ragionevole pensare che proprio questo sia il compito assegnato a una forza politica che voglia radicalmente innovare con il passato e rompere con una consuetudine di compromessi al ribasso e di esproprio della funzione d’indirizzo spettante alla autorità pubblica. D’altra parte coniugare conservazione del bene e valorizzazione culturale di esso (non commerciale) sarà possibile nella misura in cui, fin dai banchi dei primi anni di scuola, si abitueranno i cittadini di domani a rispettare innanzi tutto se stessi e la propria intelligenza, rispecchiandosi nello straordinario lascito monumentale che la storia d’Italia ci ha consegnato in eredità e che è obbligo a nostra volta di tramandare alle future generazioni. Ciò richiama la necessità della costruzione di una sinergia complessa tra tecnici, educatori, amministratori che è compito delicato e di lunga lena e che soltanto la mano pubblica è in grado di creare.
Perché questo è il punto. Nella valorizzazione culturale del bene o del sito artistico non entra in causa una mera questione estetica, tanto meno si tratta della fisima di qualche intellettuale inguaribilmente snob. Tutto al contrario, qui si gioca la partita della costruzione di una piena cittadinanza di soggetti consapevoli delle proprie tradizioni e dei propri valori di appartenenza che sono, per dir così, depositati sul terreno non come “giacimenti” da sfruttare ma come patrimonio da conoscere e da incrementare. Come elementi costitutivi, essenziali della propria identità sociale e civile. A ben vedere ci sono state altre epoche della storia del nostro paese in cui questo è stato possibile. Nel post Risorgimento, quando un’intensa campagna di restauri e di conservazione del patrimonio ha messo in sicurezza le bellezze del paese o persino in epoca fascista con avanzate leggi di tutela per quell’epoca, seppure contraddette spesso da una politica distruttiva al fine di illustrare gli scopi magniloquenti e imperialistici del regime.
La sfida è ora più alta. Come coniugare la realtà della società di massa, il diritto all’accesso alla bellezza (mi piace chiamarlo così) di cui possano fruire un numero sempre più elevato di persone senza che questa stessa pressione non ponga in crisi, fino a dissolverle, le condizioni del suo stesso realizzarsi? E, allo stesso tempo, come far sì che questa delicata, ma fondamentale operazione possa riverberarsi nelle coscienze, producendo consapevolezza delle proprie origini, senso di identità e, quindi, orgoglio di appartenenza precisamente sotto il segno della cultura che è innanzi tutto avvertenza della interrelazione, del limite, dello scambio, curiosità dell’altro; tutto il contrario, cioè, delle chiusure sovraniste e nazionaliste?
Non v’è alcun dubbio che il primo passo sia quello di spezzare il legame tra bene culturale e turismo come unica modalità di fruizione dell’opera d’arte a vantaggio di un’altra fruizione sempre più consapevole e avvertita di tutte le implicazioni storiche, estetiche e ambientali che essa comporta. A cominciare, si diceva, dalla scuola, che sconfigga questo analfabetismo bulimico nel campo della fruizione della cultura monumentale secondo il quale l’unica cosa che conti veramente è portare testimonianza d’esser stati in un luogo universalmente riconosciuto come famoso piuttosto che recarvisi per comprenderlo, rispettarlo ed amarlo, godendo della sua bellezza. E inoltre pensiamo soltanto a quale forza di integrazione possiederebbe una politica di tal fatta nell’unire i tanti alunni dei tanti istituti scolastici d’Italia, ormai sempre più marcatamente multietnici. Quale straordinaria lezione di civismo e di accorciamento di distanza tra le culture essa potrebbe marcare.
Un’ultima, rapida notazione. L’inversione della mercificazione della cultura ridonerebbe risorse e dignità gravemente neglette a un comparto essenziale qual è quello delle Biblioteche e degli Archivi di Stato, questi sì veri “giacimenti” del bene più prezioso di cui una comunità che deve decidere ogni giorno di rinnovare il proprio patto di appartenenza abbia bisogno: la preservazione della propria memoria storica documentale posta a disposizione dei cittadini e dei ricercatori come fonte di conoscenza delle proprie radici e come lievito di consapevolezze critiche sempre più avanzate. Un paese dimentico della sua dimensione storica, perché deprivato degli strumenti per costruirla, è condannato al declino e all’irrilevanza, incapace di reggere le sfide del mondo globalizzato. È giunta l’ora che la politica faccia la propria parte prima che sia troppo tardi.